Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











domenica 26 gennaio 2014

ISOLE CHE PRIMA NON C'ERANO

Molte volte, durante il lavoro psicoterapeutico, mi è capitato di incontrare nei sogni, nelle fantasie, nei ricordi di un altro, un "trapianto estraneo", cioè un "oggetto" incistato e di provenienza esterna.

Si tratta sempre di residui di esperienze traumatiche che persistono, incapsulati e disomogenei rispetto alle emozioni autoctone, nella mente di chi ha subito una grave intrusione, che rimane incapace di farvi fronte come di liberarsene. Quasi sempre, si tratta di esperienze che non possono essere totalmente dimenticate né compiutamente ricordate. Rimangono lì, come antiche schegge di legno conficcate sotto pelle, tenacemente avviluppate dai tessuti circostanti che le sequestrano per impedire loro di procedere nel cammino distruttivo che hanno intrapreso. Spesso sono ancora molto dolorose, e rendono la circolazione del sangue, delle sostanze nutritive (e, nel nostro caso, dei pensieri) impossibile o comunque molto tortuosa o paralizzante.

Ogni volta che ciò mi è capitato, mi sono trovato immerso in una rotta non prevista dalle carte nautiche consegnatemi in dote dai Maestri di navigazione, dai quali avevo appreso a muovermi lungo percorsi sicuri e per vie ampiamente sperimentate. Ma le isole sconosciute possono essere state dimenticate da cartografi troppo distratti o ignoranti, oppure essere piovute dal cielo come meteoriti sprofondate nel mare e poi riemerse come atolli spinti da imprevedibili movimenti tellurici.

Spesso, incontrando persone che avevano ricevuto dolorose pressioni dai loro genitori o dai loro partner, sono stato colto dalla tentazione di offrire loro una soluzione interpretativa del conflitto che, almeno presumibilmente, doveva aver dato avvio all'azione invasiva dell'aggressore, ma non ero mai andato oltre, per un improvviso senso di inadeguatezza che seguiva a quell'idea, troppo difforme da quanto mi era stato insegnato.

Fin dalla giovinezza, infatti, avevo imparato che la psicoanalisi non può essere predicata da un pulpito, né le sue interpretazioni diventare oggetto di una pedagogia stantia e approssimativa, o di ingenui slogan pubblicitari. Dire a qualcuno come si sarebbero dovute interpretare le emozioni di qualcun altro che gli stava vicino e che lo infastidiva sarebbe stato non soltanto scorretto a causa dell'assenza dell'interessato, ma anche inutilmente declamatorio. No, una tale strategia sarebbe potuta scaturire soltanto da chi avesse un'infarinatura superficiale di psicoanalisi, non ne avesse alcuna esperienza, e volesse vendere idee farlocche a un qualsiasi prezzo: una banale e disonesta attività commerciale, insomma.

Eppure, nonostante questa tranquilla consapevolezza, quella tentazione tornava a ripresentarsi di tanto in tanto. Finché l'altra sera, è accaduto qualcosa che mi ha fatto pensare e vedere il problema sotto un altro aspetto.

È accaduto che Guia, una donna di quarant'anni laureata in legge che occupa un ruolo di un certo rilievo in una multinazionale, mi abbia raccontato il seguente episodio: "un giorno, quando ero alle scuole elementari, mio padre si avvicinò a me mentre ero intenta ai compiti di aritmetica, e mi chiese che cosa stessi facendo. 'Sto tentando di fare le divisioni', risposi. 'Ma continuo a non capirne la procedura'.

A quelle parole, mio padre (che non ha mai ottenuto neppure il diploma di terza media) si infuriò: 'devi capirla', disse, 'assolutamente! Se entro un'ora non avrai terminato i compiti e bene, non mangerai!'. Io rimasi annichilita. Non ricordo assolutamente che cosa sia accaduto dopo".

Dire "ti ordino di comprendere", ho commentato laconicamente, è lo stesso che dire "ti ordino di essere felice". Oltre non sono andato, ma mi è tornata la voglia di indagare quel senso di rabbiosa impotenza che aveva colto l'uomo di sorpresa.

Più tardi, non smettevo di pensare al senso di impotenza di chi si trova di fronte all'esperienza del non capire, e a quante volte una persona priva di cultura possa sentirsi angosciata di fronte all'ignoto che per chi non ha studiato può moltiplicarsi a dismisura e assumere forme e dimensioni inquietanti o addirittura spaventose. Per questo le reazioni possibili possono variare dalla diffidenza paranoide verso chi sa (che in genere viene trattato come fosse un ladro di conoscenze) e verso ciò che si potrebbe sapere, oppure attraverso la svalutazione di tutto ciò che è cultura. E gli esempi storici di intolleranza verso i prodotti dell'intelligenza sarebbero innumerevoli.

Ma al di là di questi pensieri che ben poco aiuto avrebbero potuto offrire a Guia, che aveva soltanto il desiderio di rendermi partecipe di un sentimento di atterrita impotenza che non aveva mai potuto condividere prima con nessuno, una questione di metodo si è affacciata alla mia mente liberando la mia curiosità imprigionata da un eccesso di norme disciplinari ("igieniche" ero sul punto di scrivere) apprese durante gli anni della formazione.

Pochi giorni prima, avevo partecipato a un seminario con Carlo Bonomi, uno storico della psicoanalisi che sta compiendo uno sforzo ragguardevole per esplorare le origini di tale disciplina scientifica, attraverso tutto ciò che è possibile comprendere dei misteriosi fantasmi e delle angosce che agitavano Freud e i suoi seguaci. In particolare, Bonomi si sofferma sulla complessa relazione fra Freud e Ferenczi, caratterizzata dall'autoritarismo del primo in conflitto con il bisogno di dipendenza del secondo e con la "scapestrata" (Haynal) genialità di quest'ultimo, che, se da un lato gli faceva germogliare continuamente idee nuove, dall'altro non lo proteggeva dalla paura di disobbedire al Maestro. Per provare a superare questo grave handicap, Ferenczi tentò varie strade: dall'autoanalisi, all'analisi con Freud, a un lungo percorso introspettivo condotto mediante la corrispondenza con il Maestro, fino al progetto di un'"analisi reciproca" (il primo, a cui ne sarebbero seguito altri) che avrebbe dovuto vedere lui e Freud messi su un piano di parità, e in cerca di una reciproca trasparenza: un'idea che, per quei tempi non era neppure troppo balzana dato che, complici la novità della disciplina, la scarsa disponibilità di analisti e l'imprecisione di regole ancora non codificate, l'abitudine di interpretarsi, fra colleghi, i sogni o addirittura di analizzarsi a vicenda, era largamente praticata.

In questo cammino complesso e doloroso, Ferenczi, tentò, secondo Bonomi, di lottare contro un "corpo estraneo" eterogeno, cioè appartenente alla conflittualità di Freud, un "oggetto" mentale altrui, spinoso, urticante, doloroso, con il quale Ferenczi fu costretto a confrontarsi per lunghi anni, pur non essendo "roba sua", in quanto apparteneva alla conflittualità nevrotica del sia pur illustre interlocutore.

L'individuazione del "corpo estraneo" ovvero del nucleo conflittuale di Freud che entrò in collisione con la fragile autostima di Ferenczi, determinandone per molti anni la sottomissione, è l'oggetto della ricerca di Bonomi. Ferenczi non ne venne mai a capo, ma il suo lungo e doloroso tirocinio gli permise di individuare alcune strategie fondamentali che i bambini vittime dell'invadenza psicologica distruttiva degli adulti mettono in atto per proteggersi e padroneggiare ciò che li tiranneggia e di cui essi non riescono a venire a capo.

Fra queste vi è la strategia del "poppante saggio", ovvero del bambino che diventa "psicologo" dell'adulto, affinando inconsciamente la propria sensibilità e il proprio acume introspettivo, per tentare di comprendere o almeno di prevedere le mosse di un genitore folle o gravemente disturbato, e per non dover soccombere continuamente alla tentazione di attribuire a se stesso l'origine di tutti i disfunzionamenti familiari la cui natura resta incomprensibile alla sua mente.

A causa di difficoltà di questo tipo, l'infanzia di Guia ha terribilmente sofferto, ma la sua strategia di resistenza si è come impantanata a metà del guado: Guia è allo stesso tempo una donna di valore professionalmente dotata, e una figlia che patisce l'autoaccusa di trascurare i propri genitori ormai anziani, mentre lei, per ragioni di lavoro, vive in una città neppure troppo lontana da loro. Ma questo senso di colpa altro non è che il tentativo mal riuscito di dare un senso alla fonte di angoscia che, durante l'infanzia, ha fatto sentire Guia atterrita e completamente sola. Così che le difficoltà del padre sono trasferite in lei, trasformandosi, a scapito di una notevole intelligenza e di una raffinata preparazione culturale (Guia parla quattro lingue), in un paralizzante senso di inadeguatezza e di "ignoranza", che oggi emerge in forma di preoccupante insicurezza.

Riflettendo su tutto questo insieme di cose, mi sono chiesto se non sarebbe terapeutico favorire la funzionalità del "poppante saggio" (wise baby), per consentire ai nostri pazienti di fronteggiare i corpi estranei eterogeni trapiantati nella propria mente. Occorre aiutarli a uscire dal circolo vizioso della colpa e della depressione che genera ulteriore sentimento di inadeguatezza. Perché, nonostante i buoni studi e i successi universitari, non è assolutamente detto che Guia non si senta ancora interiormente colpevole per essere incapace di comprendere il meccanismo delle divisioni. Perché l'Inconscio non conosce il Tempo, e perché la rabbiosa angoscia ereditata dal padre la costringe ancora a guardare ai propri successi scolastici e professionali come se fossero sempre insufficienti, e in qualche modo "illegittimi".

Forse solo guardando il padre in profondità come chi sia in grado di individuare il conflitto nell'uomo, Guia potrà sentirsene superiore, e, per far questo, io, suo psicoterapeuta, dovrei trasformarmi, almeno per un momento, in un "supervisore", in un modo lontanamente somigliante al lavoro che faccio con gli allievi terapeuti, che mi portano i loro casi clinici perché li aiuti a comprenderli.

In fondo, lo ha scritto anche Winnicott, commentando un lavoro di Lacan nel quale il Francese attribuiva allo "stadio in cui il bambino si guarda allo specchio" l'avvio della capacità di riconoscere se stessi.

Uno sguardo rivolto in uno specchio? Certamente, commentava Winnicott, ma solo a patto di considerare come uno "specchio" il volto della madre nel quale il bambino impara a comprendere come la madre lo guarda, a riconoscere se stesso distinguendosi da lei e a identificarsi.

Così, forse, potremmo smettere di aver paura di essere eccessivamente "pedagogici" con i nostri pazienti, ricercando con essi l'origine del "corpo estraneo", l'isola che prima non c'era e che li ha indebitamente invasi, senza esser mai appartenuta a loro.

giovedì 9 gennaio 2014

RISPECCHIARSI

C'è un dettaglio biografico che mi accomuna alla vicenda emotiva di Ferenczi: una straordinaria ammirazione per l'intuizione nucleare di Freud, la delusione per la direzione presa dal suo sviluppo successivo, e l'incapacità di mettere in parole tale delusione che mi ha accompagnato per una lunga parte della vita.

domenica 22 dicembre 2013

LA PSICOANALISI E IO (nota autobiografica)


C'è stato un tempo in cui il mondo era stretto. Un tempo nel quale camminavo per vicoli angusti limitati da pareti altissime, e il sole si vedeva solo provenire dall'alto.
Da sempre, da che io ho memoria, ho desiderato fuggire, evadere e andare lontano da una gabbia rappresentata dalla visione del mondo di mio padre, che pure amavo moltissimo. Mia madre mi raccontava spesso di come ci fosse stata una prima età durante la quale, quando mio padre tornava per il pranzo, rimanevo abbracciato a lui per tutto il tempo in cui mangiava. Ma di questa età io non ho conservato alcuna memoria cosciente. Io non riesco a ricordare soprattutto il momento nel quale mio padre cominciò a deludermi: so solo che molto presto, come ideale verso il quale tendere, smise di funzionare. E però, non è che ci si possa dimettere da figli così, perché il modello che non si vuole più rimane, ostinatamente, dentro.
Da grande compresi che mio padre aveva paura, e che troppe cose del mondo, esterno ma soprattutto interno,  avevano per lui un significato inaccessibile. E mi resi conto molto presto che ciò che mi avrebbe lasciato in eredità era destinato a contrarre un legame solido ma conflittuale con istanze opposte, capitate chissà come (forse da mia madre? è difficile dirlo) nella mia mente. 
Io avevo una voglia insaziabile di panorami sconfinati, di visioni ultrascopiche, di conoscenze ulteriori; e nello stesso tempo mi sentivo paralizzato: tanto dalla paura, la stessa di mio padre dal quale mi sentivo biologicamente inseparabile, quanto da quella sensazione di non farcela ad arrivare in fondo, che ancora oggi mi prende di fronte ai libri, che pure sono il mio pane quotidiano. Ancora oggi, leggere un romanzo russo, sconfinato come un oceano immenso, mi dà l'angoscia agorafobica di perdermi, e arrivato a un certo punto, sono costretto a interrompere la lettura. Ancora oggi, davanti a un libro, provo un'irresistibile bulimia e contemporaneamente la paura di non riuscire ad arrivare alla fine. In tutta la vita ho letto, come molti, parecchie centinaia, forse migliaia, di libri, e ne ho conclusi molti meno.
A un certo punto della mia vita (forse era l'adolescenza) mi imbattei in un libro di psicologia: mi pare fosse scritto da un certo Miotto. È anche possibile che ciò sia stato prima dell'adolescenza, perché probabilmente lo leggevo in cerca di qualche improbabile eccitazione sessuale. D'altra parte, verso i dieci anni, le mie letture erotiche preferite erano un dizionario della lingua italiana, Il Novissimo Melzi (dal quale avevo capito che l'organo genitale femminile si chiamasse "utero"), e una monografia su Raffaello appartenente a mio padre, nelle pagine della quale mi consumavo gli occhi, e non solo gli occhi, sui seni rotondi della Fornarina e sulle natiche delle Tre Grazie. Quindi non è strano che in un libro di psicologia io cercassi i resoconti di qualche cosa di eccitante. Fu lì che sentii parlare per la prima volta dell'Inconscio, e ne fui immediatamente stregato.
Dunque c'era qualcosa al nostro interno che ci faceva agire in maniera inconsapevole, esistevano sogni da sbrogliare come matasse intricate, c'erano simboli che, se interpretati, avrebbero potuto aprire la porta verso mondi meravigliosi e finalmente chiari. Stranamente, l'Inconscio con i suoi oscuri fantasmi non mi faceva paura, anzi. Avevo avuto abbastanza paura delle mie fragilità che vivevo come colpe, avevo sperimentato molto da vicino, fino all'identificazione, l'angoscia e i denti serrati di mio padre, e poi, mi portavo addosso un senso spiacevolissimo di vergogna, come se la mia figura, alla sola vista degli altri, dicesse "altro" da quello che io sapevo coscientemente. Mi sentivo goffo, inconsapevole, impresentabile, e avevo l'urgenza di sbarazzarmi di tutto ciò.
Ai miei pazienti, oggi, ripeto spesso che nessuna psicoterapia è possibile se non si ha un senso di disagio e il parallelo desiderio di scrollarselo di dosso. In me, questo sentimento era fortissimo. E si accompagnava al desiderio ancora oscuro di impadronirmi di quello strumento, di quell'"autoscopio", non perché desiderassi imparare ad aiutare gli altri, ma sempre perché il mare da esplorare l'ho sempre pensato interminabile e il desiderio di fermarmi non l'ho mai avuto,  e anche oggi che il tempo si accorcia, il solo pensiero di smettere mi riempie di tristezza.
Passarono gli anni, e per una serie di complicati errori di calcolo, divenni medico. E crebbe in me quel desiderio di essere psicoanalista, e niente altro che psicoanalista, che ancora oggi mi accompagna. La stessa qualifica di psichiatra, che conquistai senza fatica, mi parve sempre qualcosa di insoddisfacente, di limitato. E il desiderio di diventare psicoanalista fu (è) sempre così prepotente, che alla fine ... mi fu negato. E sulle prime riflettei con dolore su quell'insuccesso ascoltando le sirene che lo descrivevano come una ejaculatio praecox causata da un desiderio incontenibile. Proprio come accade con i primi amori, che però non sono mai quelli definitivi. Ma, dentro di me sapevo che non era così.
Se ripenso a quell'insuccesso, mi rendo conto che, ancora una volta ero stretto fra il desiderio di impadronirmi di quello strumento meraviglioso che soltanto Freud e i suoi (allora) pochi e selezionati eredi possedevano, e qualcosa di inspiegabile che mi paralizzava.
Quando si vuole fortissimamente qualcosa e quel qualcosa ce l'ha uno soltanto, allora si corre il rischio della sottomissione. La cosa può funzionare fintanto che ci si sente piccoli e bisognosi di cure: dal momento che un certo grado di sottomissione ai genitori è indispensabile a causa della necessità, anche oggettiva, di dipendenza. Non accettare questa condizione di minorità sarebbe anche un ostacolo alla crescita. Ma la sottomissione implica l'idealizzazione. Se io devo sottopormi a un intervento chirurgico a cuore aperto, ho necessità di pensare che chi ha in mano la mia vita sia perfetto, non sbagli mai. E, in caso di necessità, se noterò qualche errore o incertezza o diventerò eccessivamente diffidente, oppure tenderò a perdonare, a non voler vedere. Ma in analisi tutto ciò che avviene senza che lo si possa capire e condividere, può costare molto caro.
Così affrontai due analisi: la prima, gioiosa e appassionata, mi permise di diventare, da quel burattino di legno che ero, un bambino in carne e ossa. La seconda avrebbe dovuto essere quella destinata a introdurmi nel salotto buono della psicoanalisi, e fu un cocente fallimento.
Se ripenso a quello che accadde allora, non posso che dar ragione ai valutatori che mi respinsero. Tutto quello che potevano vedere era inequivocabilmente fallimentare: balbettavo e tentavo di nascondere qualcosa. Ma si trattava dell'escrescenza aerea di una radice che affondava profondamente nel terreno e la cui natura era molto diversa da ciò che si vedeva. La prova di ciò che affermo è che loro mi diagnosticarono una vocazione debole, insussistente, forse motivata da ambizioni narcisistiche e prive di autenticità, mentre le cose poi andarono in modo diverso dalle loro previsioni. 
Chi riesco a scusare di meno è il mio secondo analista, cui sarebbe spettato il compito di osservare con cura quella radice che affondava nel terreno, e di aiutarmi a ricomporre quell'incongruenza: perché mai, essendo quello di diventare psicoanalista il mio desiderio più grande, una volta posto di fronte alla necessità di mostrarmi, mi nascondevo o venivo colto da sintomi sconosciuti e inspiegabili? Invece non accadde niente di tutto questo ed entrambi fummo costretti a gettare la spugna di un'analisi che non sarebbe mai andata da nessuna parte.
Furono molti coloro che mi consigliarono di tentare una terza volta: se non altro per capire che cosa fosse accaduto, visto che il tempo utile per diventare un membro della società psicoanalitica era ormai scaduto. Ma io non volli, perché sentivo che, prima o invece di una nuova analisi, avrei dovuto capire qualcosa: da solo. Ormai i mezzi autoscopici a mia disposizione erano sufficienti, le scadenze temporali si erano dissolte, e a me sarebbe bastato aspettare. Qualcosa in me sapeva che la luce un giorno sarebbe arrivata.
Passarono molti anni, e da un certo momento in poi compresi che dovevo studiare a fondo le vite di personaggi che avevano attraversato esperienze in qualche modo simili alle mie. Le analogie materiali potevano anche essere vaghe, appena accennate, ma io sentivo che in quelle vite, in quelle vicende dolorose, c'era qualcosa che mi riguardava profondamente.
Studiare quelle biografie unitamente alle produzioni scientifiche e agli epistolari, in condizioni di libertà dalle obbedienze di scuola che per tanto tempo avevo sentito come oppressive, mi dava una sensazione di leggerezza e una smania febbrile di conoscere.
Fu abbastanza facile riconoscere che gli insegnamenti e i messaggi che avevo ricevuto erano pesantemente viziati da ideologie, da proibizioni, da un ordinamento che mi appariva sempre più simile a quello della chiesa cattolica che avevo abbandonato alla fine dell'adolescenza, dopo esserne stato un fervente seguace.
Ecco: il mio malessere di aspirante psicoanalista riconosceva ora delle somiglianze con quell'insofferenza per gli insegnamenti bigotti cui mio padre mi aveva avviato, e che avevano rischiato di ferire gravemente lo sbocciare della mia sessualità, trasmettendomi insieme un chiaro invito a rinunciare alla libertà di pensiero.
Era strano, mi ripetevo, che fra le tante parole della psicoanalisi, non si incontrasse mai la parola "libertà". Persino chi (tranne pochissime eccezioni) praticava una militanza politica separava  quest'ultima dalla militanza psicoanalitica, e conobbi perfino qualcuno che, rivoluzionario nella vita civile, finì per rivelarsi un conformista impaurito e obbediente, in questo del tutto simile a mio padre; al punto di essere persino indisponibile a parlare di psicoanalisi al di fuori delle sedi canoniche.
Ripensando alla mia seconda analisi, mi tornavano alla mente ora tanti piccoli particolari che allora erano stati bollati, unilateralmente dal mio analista, come insignificanti: per quale motivo io, che avevo in precedenza affrontato un'analisi bella e creativa, avevo dovuto cambiare divano, soltanto perché le "regole canoniche" imponevano che l'analista in grado di formare altri analisti dovesse avere un certo grado gerarchico? Qual era la ratio di questa norma? Non era forse essenziale che il futuro analista affrontasse un percorso "vero", anziché conforme a una norma burocratica e stabilita una volta per tutte?  E dal momento che la mia prima analisi aveva dimostrato, dati alla mano, di funzionare bene, perché cambiare? In nome di che cosa, visto che l'analisi didattica non poteva essere un insegnamento, ma una vera esperienza emotiva? Nessuno sapeva (o voleva)  rispondere a queste mie domande, e dal mio secondo analista tutto ciò che ebbi in risposta fu l'invito a occuparmi d'altro: e si che mi sarebbe spettata, quale minimo sindacale, almeno un'interpretazione. Alla luce di quanto so oggi, è praticamente certezza il dubbio che la parte di mia responsabilità nel fallimento della seconda analisi sia stata spinta proprio dal bisogno, coatto e nevrotico, di dimostrare che l'analisi didattica non poteva funzionare. Ma sono anche convinto che se il didatta, anziché aspettare non si sa bene che cosa, me lo avesse fatto notare, probabilmente la svolta sarebbe arrivata. E sì che segnali che ne furono a iosa. Ma poteva il didatta comprendere una realtà così semplice? Io non lo so, perché dopo di allora nessuno dei due avvertì mai l'esigenza di incontrare l'altro. Ma se non poteva comprenderlo era certamente perché non era in grado di sottoporre il proprio ruolo di didatta a una critica laica e non conformista.

Oggi sono giunto a una stagione della vita nella quale tutto ciò non ha affatto perduto di importanza, ma è fonte di una continua riflessione, e di un serrato confronto con tanti giovani ai quali sono felice di trasmettere la mia esperienza.
Molto spesso, in supervisione, mentre parlo con i miei allievi, immagino anche di rivolgermi ai miei antichi maestri per non dimenticare che, in questo lavoro, non bisogna mai passare decisamente "dall'altra parte", perché il senso di smarrimento di fronte all'ignoto che provano tutti coloro che iniziano non dovrebbe mai essere dimenticato. Lo stesso faccio con i miei pazienti, avendo sempre bene in mente, quale pietra di paragone, il mio Sé bambino e impaurito. E poi, il dolore e la frustrazione possono, alla lunga, maturare interessi.
In fondo, le ferite, anche quelle che fanno molto male, possono diventare fonte di conoscenza. Per chi le ha subite e per chi, inevitabilmente, ne subirà di simili. Dal confronto, questa è la mia speranza, si può ricavare incoraggiamento e crescita.

giovedì 5 dicembre 2013

L'ANALISI È TERMINABILE?

Un'analisi vera richiede amore e sincerità, e dà luogo a un legame la cui durata va oltre il suo materiale protrarsi e che non può essere barattato con nulla, nemmeno con un'altra analisi, magari didattica. Un'analisi non vera (come lo sono spesso le analisi scelte per motivi burocratici), invece, coltiva e incripta un legame d'odio. Essa è quanto di più simile a certi legami adottivi trasformati in  simulacri di genitorialità e privi di radici profonde, che continuano a occupare ostilmente il posto di un legame vero e perduto.
Chi teme l'analisi interminabile, dovrebbe riflettere sul fatto che un legame profondo può legittimamente non aver fine, al di là del dato meramente burocratico della sua conclusione e separazione. Più delle analisi "interminabili" sono da temere quelle in cui apparentemente tutto fila alla perfezione, mentre in realtà non sono mai cominciate. 

mercoledì 27 novembre 2013

ANALISTI TUTTOFARE

Qui finisce che devo fare tutto io. E già, perché i vecchi analisti la facevano facile: se uno non aveva i requisiti era considerato inanalizzabile, e via, pedalare. Invece poi é arrivato quel rompiballe di Ferenczi a scompigliare tutto: e prima con la tecnica attiva, poi con il rilassamento e la neocatarsi, le ha tentate tutte. E alla fine, quando non sapeva più cosa inventarsi, addirittura l'analisi reciproca. Eh, già, ci manca solo che ci facciamo analizzare dai nostri pazienti, e magari li paghiamo anche. E dopo? Peccato sia morto così giovane, avrei proprio voluto vedere che cos'altro si sarebbe inventato.
E poi non è che abbia risolto tanto: certi pazienti di coccio sono, e di coccio rimangono.
Prendete Matilde: sono mesi che non mi porta un sogno. Anzi: certe volte, neppure parla. E io lì, ad aspettare. Fortuna che non mi vede, cosī mentre lei sta lì, sdraiata nel suo sonno eterno, io gioco a Backgammon su Internet. E non si deve!, direbbe la Buonanima. Ma vorrei vedere lui a rompersi le palle così. E poi, lui ragionava all'antica: Matilde, se torna, non la devi prendere mai più. Così diceva. Ma io ho sempre fatto di testa mia. Lei tornava sempre. Magari stava qualche anno senza venire, e poi tornava. Così, ridendo e scherzando, sono passati trent'anni. E in trent'anni, hai voglia di tacere: qualcosa ti scappa per forza. Non sarò mica soltanto io a rompermi le palle. E poi, io sono fatto così: ho la smania di sapere che cosa c'è dietro. Perché se stai a sentire Bion, sembra che siamo noi (vabbè, nostra madre) a dare senso alle cose, come quella storia di Adamo, che il giorno dopo la faccenda della costola se ne andò in giro a dar i nomi alle cose. Ma i nomi non sono mica tutto: perché ogni cosa ha un suo perché. E poi, quel significato lí non è ancora il significato vero, è una specie di bollino che diamo alle cose e che ci serve per capirci fra noi. Ma le cose hanno un loro perché, un loro come sono arrivate lì, un loro come ci stanno, dove vanno, che cosa fanno e che cosa pensano. E perfino che cosa non sanno di pensare. Insomma, è impossibile che Matilde mentre sta lì che sembra una statua di Giacometti non pensi niente. Magari pensa a se stessa pensante, niente di più facile. E allora, delle due l'una: o me lo dice, o mi dice guardi non sono cazzi suoi. E va bene, ma allora perché vieni qui? E non mi dire scusi mi sono sbagliata (dopo trent'anni? Mi prendi per il culo?), che tu adesso non te ne vai di qui se non mi spieghi. Tutto, dall'a alla zeta. Tutto.
Mah. Sono anni che faccio questi ragionamenti, che m'incazzo, che facciamo la pace, che poi dopo un po' ricomincia. Chissà Ferenczi che cosa direbbe. Eppure oltre l'analisi reciproca (che poi non è detto che al paziente gliene freghi più di tanto di sapere gli affari tuoi. Che magari ha paura che tu abbia problemi seri, e allora che cosa fa?) non è che resti molto, perché dopo non c'è più niente. A meno che, più che l'analisi reciproca non decida di fare tutto io, di cantarmela e di suonarmela da solo. Sogno, mi sveglio e mi interpreto il sogno. E se lei non c'è peggio per lei. Io l'ho invitata, poi, se non viene!
Così, stanotte ho sognato di essere Matilde. Ero molto vecchia, avevo ottantasei anni. E come faccio da sessant'anni ogni mattina, anche oggi sono scesa nel garage. A guardarla. È sempre bella, anche se ormai dicono che è fuori moda. Ieri il meccanico mi ha detto che, a forza di non usarlo, il motore dev'essere un blocco di ruggine. La batteria l'avevo già tolta dieci anni fa, perché tanto, di non girare mai, era sempre scarica. E poi c'era pericolo che l'acido cominciasse a colare e corrodesse qualcosa. I quattro scappamenti, invece, li ho tenuti lucidi. La carrozzeria, ha perso quella brillantezza che aveva, ma è sempre rosso-fuoco. La mia Ferrari è proprio bella. Peccato non averla mai guidata. Anche se la patente ce l'ho dall'età di diciotto anni, e ho sempre guidato la mia vecchia cinquecento.
Che strano sogno. Se fosse ancora vivo, mi piacerebbe raccontarlo a lui. Che magari, con quella storia che un giorno gli avevo detto che quando leggevo le cose che scriveva mi sarebbe piaciuto averlo come analista (anche se era il mio analista, sia pure parcheggiato lì), direbbe che la Ferrari è lui. Era proprio un narcisista. Inguaribile.

lunedì 18 novembre 2013

INTRAPSICHICO E INTERPERSONALE

Fino agli anni ottanta, i concetti di "intrapsichico" e "interpersonale" furono considerati di diversa natura e quindi il loro impiego nell'ambito delle scienze umane fu posto in termini alternativi. 
Secondo il mainstream freudiano, egopsicologico e kleiniano, sia pure con diverse sfumature, soltanto l'inconscio individuale e monopersonale poteva essere oggetto di indagine e trattamento psicoanalitico, mentre tutto ciò che indulgeva allo studio delle relazioni fra gli individui (non escluse quelle precoci) doveva essere considerato come non pertinente alla psicoanalisi considerata "vera", e distinta dalle sue forme "eretiche", dette anche "selvagge", per tacere di discipline ad essa estranee come la sociologia e la pedagogia. Tutto ciò nell'illusione che l'oggetto di indagine scientifica, soprattutto in ambito di scienze dell'Uomo, potesse essere indagato obiettivamente, come "cosa in sé", senza essere influenzato dalla presenza dell'osservatore. 
A me che scrivo, ad esempio, accadde spesso di partecipare a seminari di baby observation, portando anche riferimenti allo stato mentale materno, e incontrando perciò una sorta di riprovazione per il fatto che tali rilievi "distraevano" dall'osservazione diretta del bambino. Ciò poteva accadere perché intrapsichico e interpersonale apparivano come concetti dal significato neppure parzialmente sovrapponibile e quindi irrimediabilmente alternativo. 
Con lo sviluppo delle declinazioni bipersonaliste della psicoanalisi intervenute sopratutto negli Stati Uniti a partire dagli anni novanta, il panorama cambiò parecchio e i due concetti furono considerati meno distanti non più soltanto nelle aree culturali definite "neofreudiane" che avevano maggiormente risentito dell'influsso interpersonalista di Harry Stack Sullivan e della sua scuola, ma in generale anche fra molti psicoanalisti scontenti dell'autoritarismo che aveva permeato la cultura psicoanalitica fino allora dominante, e in qualche caso, addirittura perché personalmente danneggiati da analisi didattiche troppo "ortodosse". 
Le radici di una diversa concezione dei legami fra l'Io e le sue relazioni è da ricercarsi, tra gli altri, in studiosi come Sándor Ferenczi e John Bowlby. 
Il primo, attraverso lo studio dei fenomeni dissociativi arrivò a concepire una "mente esterna" cui il soggetto può fare ricorso per stivarvi contenuti mentali intollerabili; Bowlby, d'altra parte, avendo formulato il concetto di "base sicura" come luogo materno della protezione, aveva identificato nelle fasi dello sviluppo che precedono l'autonomia una singolare attitudine, fra i piccoli dei primati, ad affidarsi alla madre non soltanto per riceverne le necessarie cure parentali, ma anche un lavoro di vigilanza e di messa in sicurezza del territorio, al fine di scongiurare gli incontri con i predatori. 
Perciò, dovendo le funzioni di tutela  diventare in toto, con il procedere dell'individuazione, prerogativa e patrimonio del soggetto che -per così dire- se ne appropria, almeno in una fase transitoria coincidente con il trasferimento di tali funzioni, la mente del soggetto non solo si relaziona con l'oggetto, ma è in larga parte e per un tempo non breve con esso almeno parzialmente coincidente. Va da sé quindi che, se il soggetto "è" anche l'oggetto, ha poco senso affermare che l'attività di relazione esterna sia una funzione puramente "sociale" e perciò qualitativamente distinta dalle funzioni endopsichiche.

sabato 16 novembre 2013

UNA STORIA VERGOGNOSA

Fino a non molti anni fa, c'era una volta un cantante che si chiamava Lucio e componeva e cantava canzoni bellissime. Era un ometto piccolo, molto peloso e completamente calvo. Lucio si vergognava molto di quella sua calvizie, e andava sempre in giro con la testa fasciata e le spalle nude, per mostrare che aveva i peli neri e folti, anche sui denti.
Poi un giorno si fece coraggio, e andò davanti al suo pubblico con il capo scoperto, e quella volta cantò in maniera sublime. Poi vennero tempi bui, nei quali si fece cucire un parrucchino rossiccio sulla testa, e cominciò a cantar male, e a scrivere canzoni che nessuno riusciva a ricordare. Ci fu persino qualcuno che si chiese se quel parrucchino fosse il risultato del sortilegio di una Dalila alla rovescia. Poi, un brutto giorno Lucio morì, e la gente continuò a cantare le canzoni di quando lui non aveva i capelli, mentre le altre furono dimenticate.
Anch'io ho da tanto tempo una storia da raccontare, ma non l'ho mai raccontata tutta, perché mi sembrava una storia vergognosa.
Poi, un bel giorno decisi di raccontarla almeno a me stesso, e per questo la scrissi.
Poi andai da un maestro e gli dissi: Maestro, leggi questa storia e dimmi due cose: è una storia troppo vergognosa? No, rispose lui. È anche la mia storia, virgola più, virgola meno. E tu pensi che la possiamo raccontare così come l'ho scritta? No, rispose il Maestro. Non dobbiamo raccontarla affatto. La gente non la capirebbe.
Stamattina dovevo far lezione ai ragazzi e, dopo tanto tempo, mi sono svegliato con una voglia calma di raccontare la mia storia. L'ho raccontata tutta, per filo e per segno, con tutti i dettagli e senza nascondere nulla. E dopo ho sentito che la gente mi voleva più bene. E che quella storia non era per niente vergognosa, ma mi faceva sembrare immensamente ricco. Perché le storie dipende da come (te) le racconti.