Perché Wiesbaden 1932


PERCHE' "WIESBADEN 1932"? Leggete qui



Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











sabato 11 ottobre 2014

IL PECCATO ORIGINALE DELLA PSICOANALISI

(a B.)

"Nell'estate del 1897 (...) Freud dette inizio alla sua più eroica impresa - un'analisi del proprio inconscio. Oggigiorno per noi è difficile renderci conto dell'importanza di questa conquista, come del resto avviene per la maggior parte delle imprese pionieristiche. Rimane però il fatto che si tratta di un'impresa unica: una volta compiuta, è compiuta per sempre, perché nessuno può essere di nuovo il primoa esplorare quelle profondità".(E. Jones, Vita e Opere di Freud, Il Saggiatore, Vol. I, cap. XIV)


"Senza dubbio Lei è il solo che possa fare a meno dell'analista. (...) Nonostante tutte le carenze dell'autoanalisi (che sicuramente è più noiosa e ardua dell'essere analizzati) dobbiamo confidare che Lei sia in grado di padroneggiare i suoi sintomi. (...) Se Lei ha avuto la forza di superare dentro di sé senza guida alcuna (per la prima volta nella storia dell'umanità) le resistenze che l'intero genere umano oppone ai risultati analitici, noi dobbiamo confidare che Lei abbia la forza di risolvere anche i sintomi di secondaria importanza. I fatti ne danno decisamente conferma"
(Ferenczi a Freud, 26 dicembre 1912)


Il peccato originale della psicoanalisi è stato quello di credere in Dio: un dio barbuto, i cui doni divini furono la Creazione e l'Onniscienza (accanto ad essi ve ne furono altri, molto umani e di vitale importanza).
Questo credo, reso obbligatorio attraverso l'iniziazione sacerdotale cui ogni analista si sottopone, è un lascito che si trasmette di generazione in generazione, in obbedienza a quello che Jurgen Reeder chiama "The Superego Institutional Complex" ("Love and Hate in Psychoanalytical Institutions. The Dilemma of a Profession", Other Press, New York 2004), e che finisce per costituire un fardello la cui sopportazione richiede il sacrificio della creatività e della libertà di pensiero.
Un lascito che è anche una malattia mentale, che può essere affrontata con mezzi umani oppure divini.
Se si ricorre agli strumenti divini, allora non c'è che da proclamare ex cathedra l'infallibilità dell'analista, e assumerne le conseguenze. In questo caso, se la realtà stride con il Verbo, allora la la realtà ha torto: perché essa discende da Dio. Pertanto nessuna scienza né alcuna autocoscienza potranno esistere che non siano fondate sulla Fede.
Nel caso in cui la realtà (interna o esterna) debba essere indagata con mezzi umani, allora non ci sarà che da assumere programmaticamente l'errore dell'analista come uno dei nodi da sciogliere.
Tale impresa può essere esaltante, a patto di essere condotta con la collaborazione dell'analizzando.
Essa ha certamente il difetto di deludere troppo precocemente l'aspettativa magica e onnipotente di quei pazienti che affrontano l'analisi come si affronterebbe un intervento chirurgico, nel quale si mette la propria vita nelle mani di un altro augurandosi (o credendo fortemente) che sia infallibile.
Essa però avrà il supremo vantaggio di impedire che ogni comunicazione dell'analista, sia essa un'interpretazione verbale o un comportamento, venga introiettata passivamente anche quando risulti indigesta al contatto che si percepisce nella relazione reale. Perché tale assunzione sarà resa inelaborabile perché ignorata dall'analista e resa inaccessibile alla coscienza propria e altrui dall'analizzando.
L'altro grande vantaggio costituito da un atteggiamento criticamente vigile e improntato a onesta umiltà da parte dell'analista, sarà quello di rendersi indisponibile come oggetto di culto sul quale si possa o si debba costruire una religione idolatrica fondata sulla sottomissione. Ciò avrà per conseguenza il fatto che i nostri pazienti, al pari dei figli, considereranno non solo possibile ma anche naturale succederci e quindi superarci.
La nostra specie si perpetua attraverso le generazioni, e il nostro desiderio maturo è che esista il progresso. Ciò implica che il superamento dei padri da parte dei figli sia una necessità da favorire più che generosamente, e la considerazione che il complesso di Laio sia una condizione non particolarmente favorevole al progresso dell'Umanità.

giovedì 25 settembre 2014

BION

Confesso di avere molte difficoltà con il pensiero di Wilfred Bion, perché si presenta in modo seducente, misterioso, affascinante, esageratamente ellittico, perentorio, e mai del tutto convincente.
Ė qualcosa che non si capisce fino in fondo ma che si percepisce come molto prezioso. È come quel frammento della Civitas Dei che si salvò dalle fiamme in un racconto di Borges. Quel frammento racconta che Platone "insegnò in Atene che alla fine dei secoli, tutte le cose riacquisteranno il loro stato anteriore, e che egli in Atene, davanti allo stesso uditorio, insegnerà tale dottrina" (J. L. B., I Teologi, nella raccolta l'Aleph). Quel frammento, prosegue il racconto, divenne oggetto di una forma speciale di devozione, dando luogo al formarsi di sette religiose che avevano come loro credo l'Eterno Ritorno e come simbolo la Ruota al posto della Croce. Ma i loro adepti ignoravano che nel testo originale da essi venerato, Agostino aveva esposto la dottrina per meglio confutarla.
Così, di fronte alle parole di Bion le cui premesse (il)logiche mi sono sconosciute, sono tentato dalla Fede, tanto più che Lui la raccomanda. L'unica ragione che mi fa esitare sulla via della Dottrina è la certezza che Bion non sarebbe affatto contento di tutto ciò, di me suo chierico indegno, e forse addirittura della sua stessa Creazione. Salvo disconoscerne come fa quell'Altro, la traduzione blasfema fornita dai Suoi interpreti.

lunedì 8 settembre 2014

FUGACI CONTATTI CON IL VERO SÉ

In queste brevi note non mi soffermerò più di tanto a parlare del pensiero di Winnicott, che pure fece della distinzione fra Vero e Falso Sé uno dei pilastri portanti della sua costruzione teorica. Anche perché definire esattamente che cosa sia il Vero Sè è impresa temeraria e probabilmente votata all’insuccesso, dato che di questa entità nascosta non si possono che avere approssimative anche se a volte folgoranti intuizioni.
Le riflessioni che seguono sono il resto di due esperienze susseguitesi nel giro di poche ore: una seduta con P., donna la cui appassionata vitalità si nasconde dietro una cortina molto ben strutturata di preoccupazioni estetiche, e la lettura di un articolo comparso sulle pagine culturali nel numero di oggi, 8 Settembre 2014, di Repubblica.
P., che in sogno teme di perdere la propria bellezza che verrà poi restaurata da manufatti chirurgici della cui efficienza e stabilità sembra fortemente dubitare, è angosciata dall’idea che l’analisi stessa possa contribuire a metterla a nudo rivelando impietosamente ciò che lei stessa teme o dispera di conoscere; mentre l’autore dell’articolo, lo scrittore Michael Cunningham, racconta magnificamente il linguaggio di un’opera d’arte, la statua funeraria di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia, conservata nella cattedrale di San Martino a Lucca. 
Seconda moglie di Paolo Guinigi, aristocratico e tirannico signore del luogo, Ilaria morì a 26 anni dopo aver dato alla luce il secondo figlio della coppia.  Alla sua morte, il consorte commissionò il monumento funerario che la ritrae dormiente con un cane (simbolo di fedeltà) accovacciato ai suoi piedi.
L’articolo di Cunningham passa in rassegna tutto ciò che la statua non può dire dei sentimenti di Ilaria morente, compresa la rabbia per dover rendere la vita in un’età così precoce, dopo aver adempiuto i propri “doveri” di madre e moglie esemplare, quale l’intenzione del committente intendeva ritrarla.
Jacopo, in un’epoca in cui Bernini, Michelangelo e Leonardo non erano nati, realizza un’opera magnifica, infondendo nel viso della donna un’ineffabile aura di mistero e di muta compostezza.
Ciò offre all’Autore dell’articolo l’occasione per addentrarsi in riflessioni che hanno avuto su di me un effetto di vertigine e di affascinata passione, in particolare in alcuni passaggi che voglio qui riportare: 
“Il compito dell’artista è riprodurre la nostra umanità nascosta. Il compito dell’impresario di pompe funebri è farci assomigliare, seppur fugacemente, a come eravamo in vita”. 
O meglio: a come pensavamo noi di essere, o come gli altri ci vedevano. Oppure (come nel caso di una giovane donna consegnata alla memoria eterna dal volere di un marito dispotico, preoccupato soprattutto di ricordarne la fedeltà, e già proiettato verso nuove imprese erotiche o matrimoniali), come gli altri pretendevano di rappresentarci.
Ma c’è qualcosa che l’Autore descrive e che rappresenta l’incontro del soggetto con la propria “vera” realtà (il Vero Sè, direbbe Winnicott), che lascia senza fiato.
Cunningham racconta: “Ho un amico che è morto, per qualche minuto, durante un’operazione chirurgica. Niente battito, niente respiro. e, grazie alla strana magia della medicina moderna, è stato riportato in vita. Dopo quello che ci parve un rispettoso intervallo di tempo, noi che lo conoscevamo gli chiedemmo che cosa avesse provato in quei quattro minuti e poco più che era stato, tecnicamente, morto. (...)  «Ebbi la sensazione -fu la risposta dell'amico- di essere in presenza di qualcosa che mi aveva riconosciuto». Aggiunse poi che non era come se fosse stata riconosciuta la sua identità, la sua persona; a quanto pareva, le sue azioni terrene avevano ben poca importanza. Disse di aver avvertito la presenza di qualcosa che lo conosceva a un livello più intimo e profondo, che non aveva niente a che vedere con quanto immagino chiameremmo la sua identità. Si sentì riconosciuto nello stesso modo in cui una neo-mamma riconosce il suo bebè appena nato”.

Confesso che queste righe mi hanno emozionato non poco. La conoscenza che una mamma ha del proprio neonato va al di là di ogni linguaggio e di ogni capacità cognitiva a noi nota se non in larga approssimazione; e siccome io non sono affatto disposto a ricorrere alla semplificazione logica di un’interpretazione che immagini l’anima del quasi-defunto posta transitoriamente alla presenza di un'Entità onnisciente, ho piuttosto la tendenza a immaginare che una regressione così massiccia abbia posto la mente del soggetto di fronte a una percezione di sé non mediata dai linguaggi, dalle narrative storiche, dalla serie infinita delle sovra-trascrizioni della propria memoria autobiografica, che contraddistinguono la nostra vita psichica adulta.
Molto spesso, come nel caso di P., queste trascrizioni sono l’effetto di complicate relazioni simbiotiche che includono nella percezione di sé molti pensieri introiettati attraverso l’intimo contatto con altri, anche nel caso che tali introiezioni abbiano trascinato dentro il Sé sentimenti anaffettivi, o antlibidici transitoriamente o stabilmente presenti nei propri antichi caregivers, che conferiscono al soggetto un senso di smarrimento e un’angoscia che richiede di essere rivestita di immagini tanto appariscenti quanto malferme.
Ma, analogamente a quanto accade alle giovani madri, allo psicoanalista è concesso il privilegio di riuscire a individuare da piccoli segni, da fugaci impressioni e da propri stati d’animo, elementi il più delle volte frammentari di una realtà affettiva profonda e degna di essere apprezzata e amata, di cui rendere partecipe il paziente.
Sono i nostri sentimenti più difficili da definire a essere maggiormente in contatto con ciò che l’Altro non riesce a cogliere di Sé. 


E la realizzazione di questo compito, di certo rudimentale e approssimativa, è ciò che di più prezioso la psicoanalisi possa perseguire, al di là di ogni possibile definizione, da tale angolo visuale estremamente riduttiva, di stati morbosi e di rimedi terapeutici.

venerdì 27 giugno 2014

LA GRANDE TRUTH

“The truth is beauty, the beauty is truth”: verità e bellezza come quasi sinonimi. Molti anni fa, negli anni settanta, questo aforisma era uscito, con tono secco e ispirato, dalla bocca di Donald Meltzer, durante uno dei memorabili seminari organizzati a Perugia  da Carlo Brutti e Franco Scotti.
Quelle parole mi erano sembrate strane e incomprensibili, forse addirittura arroganti nella loro perentorietà. Sarà stato perché allora, la parola “bellezza” aveva ancora un sapore scolastico, e mi faceva venire in mente, in maniera intellettualistica e anaffettiva, unicamente il Canone di Policleto. Oppure sarà stato perché dalle verità sul mio conto che dovevo ancora scoprire, tutto m’aspettavo tranne che fossero belle o anche solo attraenti. E così, d’un tratto, il desiderio di confrontarmi su un piano di accessibilità con un “grande” della psicoanalisi, subiva un arresto improvviso, rivelandomi una dimensione di pensiero irraggiungibile e misteriosa.
Questa frase mi è tornata in mente oggi, quando, camminando per strada, il mio sguardo si è posato sulla foto di Toni Servillo vestito dei panni (molto studiatamente raffinati) di Jepp Gambardella, il protagonista de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino.
Ho ripensato a quelle parole che riassumono tutto il film: alla “Santa” che gli chiede “perché non hai mai più scritto un libro?”, risponde: “perché cercavo la grande bellezza, ma … non l’ho trovata” . E lei: “lo sai perché io mi nutro di radici? Le radici sono importanti….”
Ma prima, nel riflettere sul passato, il protagonista aveva raccontato il proprio errore percettivo senza tuttavia poterlo ancora riconoscere: “io non volevo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Ecco: essere belli e vestiti in certo modo, essere “il re dei mondani”, andare il televisione, è la grande e inconsolabile tristezza. Perché è una bellezza disgiunta dalla verità. Anzi: un’apparenza che si nutre, e si gonfia fino a scoppiare, di inautenticità.
A sentire le parole della Santa, sembra che si possa ritrovare l’autenticità soltanto nutrendosi delle proprie radici. Forse, noi abbiamo una necessità vitale di stringere saldamente fra le mani la nostra storia, e per farlo dobbiamo riuscire ad amarla nei suoi avallamenti e nei suoi picchi, nelle sue miserie e nelle sue grandezze.
Se la bellezza è la verità, se la verità è ciò che (non) sappiamo di noi stessi, tutto ciò diventa comprensibile soltanto quando acquisiamo la capacità di leggere le nostre radici.

E’ per questo che, durante tutta la mia vita professionale, fra gli scarni ferri del mestiere, ho sempre attribuito un posto speciale alla ricerca, meticolosa e dettagliata, dell’anamnesi, cioè della storia personale, e persino pre-natale delle persone che mi erano state affidate. Perché soltanto così si scoprono le radici: quelle dei pazienti che si rivolgono a noi, ma soprattutto le nostre. Per scoprire le quali ci possono venire in soccorso soltanto la filosofia, la grande letteratura, l’arte, la grande musica, e per le anime più semplici come la mia, la psicoanalisi. Ma non qualsiasi psicoanalisi. Soltanto quella capace di amare qualcosa oltre se stessa. E di saperne cogliere l’invisibile bellezza.

martedì 10 giugno 2014

ERGO SUM

L'uomo anziano passeggia nervosamente lungo il corridoio nella casa dell'amico. È stato un noto psicoanalista, uno studioso, l'autore di libri tradotti in molte lingue, un uomo famoso. Tutto ciò si è arrestato improvvisamente il giorno in cui è stato colpito da un ictus, dal quale, secondo il suo neurologo, è poi "guarito". Tutto il suo corpo risponde ora ai movimenti, e se non fosse per quella maledetta depressione che lo atterra, potrebbe fare una vita da uomo normale. Ma che cosa è normale? Una gran parte dei suoi ricordi se ne sono andati come files cestinati per sempre: operazione non reversibile. La sua incessante attività di studioso non potrà mai più riprendere.
L'uomo passeggia, scorrendo le costole dei libri in vista sugli scaffali della libreria dell'ospite. A un tratto è preso da una silenziosa frenesia, e ne estrae un volume massiccio scritto da un autore straniero fra i più famosi, di cui egli è stato l'editor italiano.  Ne scorre nervosamente alcune pagine, poi va al frontespizio: qui inizia a scorrerne con l'indice prima il nome dell'autore, poi il titolo, quindi il sottotitolo, per arrivare a leggerne il nome del curatore dell'edizione italiana, che è il suo. L'uomo emette un sospiro di sollievo, seguito da un cenno di assenso con la testa. Con l'aria finalmente sollevata, chiude il libro e lo ripone con cura nello spazio dal quale lo aveva estratto. La sua vita, tutta quella vita passata a inseguire sogni propri e altrui, e a distillarne pensieri da fissare sulla carta, non è più dentro di lui, e non vi tornerà. Stasera gli basta pensare che è da qualche parte, là fuori. E che vive di una vita propria.

lunedì 5 maggio 2014

IL «ROMANZO FAMILIARE» DELLA PSICOANALISI


Quando, nel settembre 1897, in una famosa lettera a Fliess ("non credo più ai miei neurotica")  Freud giunge ad abbandonare la Teoria della Seduzione, lo fa spinto dalla propria incredulità di fronte al ripetersi di fenomeni incestuosi nelle famiglie dei suoi pazienti: una frequenza che gli appare irrealistica.

Altre ragioni più sottili sono state addotte per spiegare quello che Bowlby definirà "un disastroso voltafaccia", ma qui mi vorrei limitare a considerare alla lettera il metodo di indagine adottato da Freud, mettendo provvisoriamente da parte ogni altra motivazione personale (quelle ad esempio descritte da Marianne Krüll, in relazione ai conflitti con il padre Jacob) o "politica" (quelle ipotizzate da Jeffrey Moussajeff Masson, a proposito dell'esigenza di Freud di temperare le tensioni con  l'ambiente scientifico e sociale viennese a lui contemporaneo).

Nella Minuta M a Fliess del 25 Maggio 1897, Freud espone all'amico il processo associativo dell'esperienza traumatica (che dà ancora per certa) con la fantasia, così come se la sta raffigurando a quel punto della sua speculazione.

In questo testo sono contenute importanti intuizioni relative a un concetto la cui fortuna si svilupperà cento anni dopo, vale a dire il "transgenerazionale". Ma è la preoccupazione monotematica di fondo a impedire a Freud di liberare la fantasia in più direzioni non ostacolate dal timore, veramente eccessivo, di contraddirsi.

In questa prospettiva i sintomi dei figli sono spesso, per Freud, "riletture" e interpretazioni dei conflitti appartenuti ai genitori o agli avi, ma in una prospettiva troppo condizionata dall'idea pansessualista di fondo.

"L'agorafobia -scrive fra l'altro- sembra dipendere da un romanzo di prostituzione, che riconduce a un romanzo familiare": laddove per "romanzo" intende una ricostruzione romanzata ma dal nucleo storicamente vero dei conflitti domestici.

"Una donna che non vuole uscire da sola -prosegue- afferma quindi l'infedeltà della madre".

Molti anni più tardi, la psicoanalisi, liberandosi dalla necessità coatta di non divergere dalle ipotesi del Fondatore, rifletterà sui concetti di simbiosi, di separazione, accettando anche il concetto, originariamente junghiano, di individuazione; argomenti, questi, che contribuiscono a spiegare l'agorafobia in una dimensione aperta e non più condizionata dal dogma del conflitto sessuale originario, che rende il pensiero drammaticamente asfittico. Nello stesso tempo, i traumi sessuali "reali" , e tutti i traumi esogeni in generale, continueranno a essere interdetti all'attenzione degli psicoanalisti, in obbedienza a un errore di prospettiva destinato a perpetuarsi in "eterno", come un "romanzo familiare" patogeno.

venerdì 25 aprile 2014

SULLA COMPASSIONE

In una lettera datata 8 Marzo 1895, Freud scrive all'amico Wilhelm Fliess, celebre otorinolaringoiatra berlinese, una lettera molto turbata, con la quale lo mette al corrente dell'esito imprevisto e sfavorevole dell'intervento di asportazione di un turbinato nasale a Emma Eckstein, amica di famiglia e paziente di Freud.
Emma è ammalata d'isteria, in un'epoca in cui la psicoanalisi non ha ancora raggiunto una propria maturità di disciplina scientifica. Freud sta compiendo i primi passi nella cura delle nevrosi, e da tre anni ha stretto un rapporto di intima amicizia con il medico berlinese.
Quest'ultimo sta sviluppando una teoria eziologica dei disturbi isterici, che in qualche modo "incrocia" gli studi freudiani, secondo la quale i fenomeni isterici sarebbero riconducibili a una presunta relazione, nella corpo femminile, fra le mucose nasali e i genitali, da cui ha tratto una teoria definibile come della "nevrosi nasale riflessa".
In breve, Fliess consiglia l'amico di operare al naso Emma, ma l'operazione si risolve in un clamoroso disastro. Non soltanto, l'esistenza di "punti genitali del naso" che avrebbero un ruolo
eziologico nella genesi della malattia è pura fantasia, ma l'operazione va incontro a un gravissimo incidente: Fliess, venuto apposta a Vienna da Berlino per operare la paziente, non si avvede che un lembo di garza allo iodoformio è rimasta in una cavità ossea vicina al naso (seno paranasale), e provoca alla paziente conseguenze post-operatorie pericolose per la stessa vita, che verranno scongiurate dal tempestivo intervento del prof. Gersuny, un otorinolaringoiatra viennese chiamato da Freud giorni dopo il ritorno di Fliess a Berlino.
L'episodio, sul quale si è scritto moltissimo, è l'argomento sottostante il celebre "Sogno dell'iniezione a Irma", considerato lo "specimen dream" dell'"Interpretazione dei Sogni" (1899), l'opera forse più importante del Viennese.
Rileggendo ora la lettera scritta da Freud a Fliess poco dopo l’incidente, vengo colpito da alcune frasi nelle quali ricorre la parola "compassione".
Freud si trova in una situazione di grave imbarazzo, ed è dilaniato da pesantissimi sentimenti di colpa e di vergogna. La sua determinazione nel ricercare l'eziologia sessuale al fondo di ogni nevrosi, lo condurrà, come nel caso clinico del Presidente Schreber, a trascurare vari elementi d'indagine in favore della conferma dei propri presupposti teorici. Per questo a me sembra che il senso di colpa espresso attraverso il "sogno di Irma" contenga anche un elemento concernente tale percorso d'indagine scientifica. Durante il sogno, infatti, viene riscontrata nella paziente un'infiltrazione dovuta a una manovra medica errata, questa volta l'iniezione di un composto chimico, la
trimetilamina, che richiama, per le sue caratteristiche organolettiche, la sessualità. Forse, pensa Freud durante il sogno, "l'ago non era pulito".
Il senso di colpa è quindi causato da una doppia manovra erronea e in parte violenta: l'aggressione chirurgica che residua un corpo estraneo nel corpo dell'ammalata e l'intrusione forzata di un elemento eziologico che non c'è: non l'interessamento nasale nelle vie nervose che dovrebbero essere coinvolte del processo isterico. E accanto ad esso, neppure, forse -mi permetto di arguire- la sessualità come elemento onnipresente e pervasivo.
L'introduzione di questi elementi richiede un certo grado di tacitamento del senso di colpa, normale del resto, nella professione chirurgica quale premessa a un'aggressione cruenta a fini esclusivamente terapeutici. Da questi atti medici è estromessa la compassione, ovvero l'identificazione con la sofferenza dell'ammalato e con la sua paura.
Nella lettera a Fliess, Freud è in grave conflitto perché vorrebbe accusare l'amico di un atto barbaro e insensato, ma prima di tutto deve accusare se stesso (da cui poi il sogno, a esercitare una funzione traumatolitica e consolatoria) per aver accettato e favorito l'intervento.
Dopo aver dichiarato non senza sforzo che non intende rivolgere accuse all'amico, Freud invita se stesso e l'altro al recupero di un elemento psichico prima censurato in entrambi: per l'appunto, la compassione.
"Ora -scrive- dopo che ci ho riflettuto sopra, non resta altro che una sincera compassione per quella figliola". E più avanti: "Naturalmente, nessuno ti muove un appunto, e non saprei nemmeno chi potrebbe farlo. Spero solamente che anche tu arriverai, come me e altrettanto rapidamente, a provar compassione, e sta pur certo che non mi è stato necessario ristabilire la mia fiducia in te.
Desidero soltanto aggiungere che per un giorno ho esitato a comunicarti l'accaduto, poi ho incominciato a vergognarmi, ed ecco qui la lettera". (Sigmund Freud, Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904. Edizione integrale a cura di J. M. Masson. Torino: Boringhieri 1986).
Perché mi colpisce questo ripetuto richiamo alla compassione? Forse perché esso si colloca a un bivio dell'affettività del medico. Ostacolo indesiderabile laddove si debba procedere in maniera cruenta e dolorosa per salvare la vita a un paziente, la compassione (parola etimologicamente affine a termini come "simpatia" ed "empatia") è un sentimento di marca materna, espulso dalla cultura medica maschile dalla coscienza "militarizzata" in funzione della guerra al "nemico" identificato con il "morbo", l'agente patogeno, il tumore, in obbedienza alla disposizione affettiva che Franco Fornari chiamava "codice paterno".
Ma l'improvviso richiamo alla "pietas" materna, che coglie Freud nel momento del dolore e della vergogna, è la necessità di riappropriarsi di una dimensione che nulla più trascuri di tutto ciò che è umano. La questione di una cura condotta con uno sguardo materno oppure paterno sarà destinata, negli anni a venire, a costellare anche dolorosamente il lungo confronto affettivo e conflittuale tra Sigmund Freud e Sándor Ferenczi.