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sabato 25 febbraio 2012

GUERRE IDEOLOGICHE IN MATERIA DI AUTISMO INFANTILE

In campo scientifico, le guerre ideologiche, fatte di speculari arroganze e di ferree certezze, hanno l’effetto di produrre una democratica condivisione del torto.
Questa riflessione sorge spontanea alla lettura di un articolo di Gustavo Corbellini che descrive la polemica sul trattamento dei bambini autistici sorta in Francia fra psicoanalisti e terapeuti cognitivo-comportamentali, e le repliche che a tale articolo sono state opposte in un “manifesto” (definizione esagerata) co-firmato da due analisti freudiani, Bolognini e Argentieri, dallo junghiano Zoja e dal lacaniano Di Ciaccia. Già questa prova di ecumenismo fra psicoanalisti è una buona notizia per chi, come chi scrive, ama la psicoanalisi pur rifuggendo da quegli atteggiamenti di partigianeria che dovrebbero suonare inaccettabili per ogni psicoanalista, anche al fuori dai confini francesi, in omaggio al messaggio di Freud, che, depurato di alcune scorie dogmatiche, resta un messaggio di libertà.
Premetto che io, psichiatra che pratica la psicoanalisi in collaborazione con pazienti diversi dai bambini autistici, non ho pieno titolo, né piena competenza, per intervenire sul tema in discussione; tuttavia, gli argomenti sollevati non si limitano al solo trattamento dell’autismo, ma investono più in generale la questione fondamentale dell’identità delle discipline scientifiche e della relazione con i pazienti, argomenti sui quali mi sento di poter dire qualcosa.
Ha probabilmente qualche ragione Corbellini quando fa riferimento a comportamenti delle istituzioni psicoanalitiche che, più che settari, si potrebbero definire autoreferenziali, ma sbaglia quando sostiene un orientamento culturale che pretende di stabilire una volta per tutte ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e soprattutto ciò che si deve o non si deve fare.
Se il “verbo” di Lacan, non meno di quello di Freud, ha assunto più e più volte una connotazione dogmatica inserendosi in un sistema chiuso di pensiero, è questione sulla quale gli psicoanalisti (quelli che ancora si considerano “ortodossi”, perché molti dei cosiddetti “eretici” lo fanno da tempo) dovrebbero una buona volta iniziare a riflettere seriamente e serenamente.
Nella trasmissione “Fahrenheit”, andata in onda su RAI Radiotre il 24 febbraio scorso, in un dibattito a due con Corbellini, l’ottimo Di Ciaccia si è difeso molto male, pur disponendo, a mio giudizio, di qualche valido argomento che sarebbe stato spendibile se fosse stato espresso in buon italiano, anziché nel solito gergo lacaniano incomprensibile ai più. Continuare a parlare (per di più di fronte al grande pubblico) del “desiderio dell’Altro” senza voler spiegare che cosa ciò significhi quando si potrebbe più agevolmente parlare di “relazioni”, è una pratica da convento di clausura, è l’esercizio di una microlingua capace di produrre l’isolamento “autistico” di chi la parla in un mondo che è diventato uno sterminato open space telematico. Poiché Di Ciaccia non è certamente illetterato, viene il dubbio che le espressioni usate da Lacan, ancorché tradotte dal francese, siano diventate un feticcio intoccabile; e forse questo è un argomento degno di attenzione da parte degli storici della psicoanalisi.
Se dalla parte di Corbellini e dei critici dell’interpretazione psicoanalitica dell’Autismo si insiste soprattutto nella critica al concetto di “madre coccodrillo” di Lacan, o di “madre frigorifero” di Bettelheim, si ha il dovere di parlar chiaro, perché altrimenti, di fronte a famiglie atterrite dalla prospettiva dell’handicap, qualsiasi espressione che suoni come colpevolizzante, rappresenta un trauma ulteriore, che rende comprensibili, anche se non giustifica, le accuse vergognose che vengono rivolte in rete a Bruno Bettelheim del quale si mette persino in dubbio l’esperienza vissuta a Dachau e a Buchenwald, e seguita, come quella di tanti altri sopravvissuti allo sterminio, dal suicidio.
Ciò che dal dibattito in corso non traspare con sufficiente chiarezza è che soltanto dei clinici poco esperti, indipendentemente dalla scuola di appartenenza, potrebbero “colpevolizzare” chicchessia; e che il problema della relazione primaria fra madre e bambino, oltre a essere ineludibile non può essere soggetto ad alcun tipo di sanzione morale, perché nei casi d’inefficienza materna, la madre stessa è reduce da un passato di trascuratezza e di dolore. In questo campo, gli studi sulla trasmissione transgenerazionale delle conseguenze dei traumi precoci e dei difetti di accudimento, sono troppo universalmente noti e condivisi perché si possa accusare qualcuno: madri troppo giovani, inadeguate al compito di sostenere la nuova vita che nasce, sono spesso, a loro volta, ancora delle bambine non adeguatamente accudite e affettivamente nutrite; donne soggette alla diffusissima depressione post-partum che non riescono a rimanere in intimo contatto emotivo con il bambino che nasce, non possono essere di certo colpevolizzate ma aiutate a sostenere ciò che a loro appare insostenibile. E che dire degli aborti mancati, di quelle situazioni in cui la decisione di proseguire una maternità è stata presa controvoglia o per decisione altrui? Il bambino che nasce, come scriveva lo psicoanalista Sándor Ferenczi, ha un bisogno vitale di essere “bene accolto”: in caso contrario, non trovando affetto, calore e intimità, può essere tentato di “lasciarsi cadere all’indietro, nella non-esistenza”; di morire cioè, o di essere sempre ammalato, o di piangere in continuazione esasperando ulteriormente una madre già troppo stanca e provata.
Ma perché, si dirà, sempre le madri? Perché non i padri, o le nonne, le zie, gli zii? Perché la madre è, per il bambino che nasce, l’intero universo, la casa, “l’Altro” di cui parla Lacan, lo specchio, il contenitore, la fonte di ogni nutrimento, calore e rassicurazione in un’epoca in cui, tutti gli altri non sono ancora stati neppure percepiti. Poi una madre eccessivamente stanca o ammalata può certo, anzi deve!, essere sostituita da qualcuno che la possa alleviare, da qualcuno che possa far sentire al bambino che un temporaneo impedimento della madre non è la caduta in un precipizio senza fine.
Se si fosse detto questo, a Corbellini e alle sue certezze, non sarebbe rimasta altra consolazione che la fede nella medicina basata sull’evidenza, che con il suo corredo di statistiche, acronimi e protocolli costituisce un verbo non meno dogmatico (e per nulla esente da conflitti d’interesse), dello stanco esoterismo rituale di certa psicoanalisi.
Io non credo affatto che la terapia cognitivo-comportamentale sia più o meno efficace della psicoanalisi (che, fra l’altro, non è più una sola, ma si dirama in molti approcci differenti), perché sono fermamente convinto che la bontà di un trattamento sia funzione della relazione intima che si stabilisce fra psicoterapeuta e paziente, in entrambe le direzioni, quali che siano i riferimenti dottrinali del terapeuta. Io stesso, psichiatra di passione psicoanalitica, non ho esitato a rivolgermi a ottimi colleghi cognitivo-comportamentali per miei familiari, quando ho ritenuto giusto farlo. Credo però che si debba sapere a quale obiettivo ci si rivolge e perché lo si fa; quale che sia l’approccio alla patologia autistica, nessuno potrà mai negare l’importanza della cura della relazione fra “quella” madre e “quel” bambino. E se per caso una madre scoprisse di avere per tutta la durata della gravidanza sognato di avere la pancia vuota, sarebbe di certo un grave errore scientifico trascurare quel dato per ripensare l’origine di una patologia, quali che ne siano le concause neurobiologiche di cui nessuno nega l’esistenza o l’evidenza.
Tutti noi psicoterapeuti abbiamo oggi un vitale bisogno di una robusta iniezione di laicità, ottenibile soltanto attraverso lo studio onesto e privo di censure della storia delle nostre discipline. Soltanto così riusciremo a essere un po’ meno partigiani e un po’ più credibili con noi stessi, ogni volta che avremo l’impressione di aver conquistato un piccolissimo frammento di Verità.

7 commenti:

  1. Caro Gianni Guasto,
    mi complimento per la lucidità e la prontezza della tua esposizione riguardo la neonata 'querelle' sull'autismo.Rilevo anch'io la necessità di un'apertura assolutamente laica di cui la psicoanalisi ha necessità.
    Come Presidente di OPIFER (Organizzazione di Psicoanalisti Italiani molto laica e pluralista) e come membro di Nodi Freudiani (movimento lacaniano di ricerca teorica)mi sento in dovere di rimarcare la necessità che gli psicoanalisti escano dalle proprie chiese e dai propri gerghi per tradurre la grande ricchezza del sapere psicoanalitico in una 'koinè'(come diceva Franco Fornari)cioè in una lingua comune che consenta un dialogo scientifico con le altre discipline. Tuttavia va anche rimarcata la necessità che lo statuto di formazione e di ricerca dello psicoanalista venga rispettata e autorizzata indipendentemente dall'interferenza di altre discipline. Va evitata una lotta fra professionisti e operatori che potrebbero convergere e collaborare anziché accusarsi di reciproca incompetenza e inadeguatezza.
    La questione lacaniana dell'Altro con l''A'maiuscola o minuscola, equivale alla questione delle idetificazioni e controidentificazioni proiettive che sembrano dominare i gerghi postkleiniani,come le teorie dei sistemi o come le affermazioni di generalizzazioni sulle neuroscienze, sono tutte questioni di arroccamento nel gergo di scuola. Il povero paziente, o cliente , o analizzante, o sofferente che dir si voglia, pare escluso dalla relazione necessaria e implicita in ogni cura: forse tutto il mondo 'psi' assieme al mondo medico si dovrebbe interrogare criticamente sull'autoreferenzialità che li caratterizza.

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    1. Caro Piero, siamo perfettamente d'accordo. La chiusura nei gerghi, tanto più se mantenuta anche quando si parla in pubblico, indica una preoccupante carenza identitaria, e forse anche una carenza di elaborazione dei messaggi introiettati durante il percorso formativo.
      L'intervento di Di Ciaccia alla radio mi ha fatto pensare che si rischi di essere cannibalizzati dai maestri vita natural durante; e mi chiedo se tutto questo debba essere considerato soltanto un problema dell'allievo, e non anche del maestro, che potrebbe "aver bisogno" di essere idealizzato.
      D'altra parte, la storia della psicoanalisi è piena di affiliazioni dolorose. Basta pensare a quello che scrive Cremerius su Karl Abraham, "capro espiatorio" di Freud, per non parlare delle difficoltà incontrate da Ferenczi.

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  2. Non conosco personalmente Di Ciaccia ma credo che sia la nuova eminenza grigia dopo Giacomo Contri: ha avuto il merito di far tradurre abbastanza bene e abbastanza rapidamente molti dei Séminaires di Lacan. Dev'essere un "accreditato" da J.A.Miller, il genero fortunato di Lacan depositario della corona dell'ufficialità. Come in tutte le scuole il narcisismo dei cardinali nominati, per così dire, ... li porta a voler essere papi! Sicuramente il destino di Ferenczi, uno dei massimi psicoanalisti del gruppo, è stato un segnale inequivocabile delle ragioni che hanno segnato la psicoanalisi successiva.
    Ma penso che i "nuovi vecchi maestri" odierni producano un danno ancora peggiore dei precedenti errori di Freud, poiché sembrano strutturare una chiusura e una censura alla modernità del pensiero.Almeno Freud, Ferenczi, Jung, Abraham,Fromm, Adler e altri hanno aperto grandi varchi nella cultura moderna, con limiti e pregiudizi, con invidie e timori, con ambizioni e ideali anche contestabili. Ma senza Freud non avremmo la psicanalisi, senza Ferenczi non avremmo la relazione e il contro-transfert, senza Abraham non avremmo avuto la Klein, senza Jung non avremmo considerato l'esistenza della cultura umana come creazione di un inconscio comune alla specie umana,senza Adler non ci sarebbero state aperture all'idea del carattere sociale e della spinta positiva dell'aggressività indirizzata come potenza... Il problema è che oggi non ci possiamo far incantare da 'sembianti' di maestri che forse sono ormai démodé!
    Però c'è anche la bagarre degli psicologi di varia tendenza e maniera che si sta snocciolando online a proposito dell'infelice questione dei bambini autistici. Mi pare che si cada davvero in una guerra fra poveri: le motivazioni ad affrontare le questioni cliniche mi pare si spostino sul piano teorico - in maniera debolissima,devo dire - con una trascuratezza totale della questione di presa in cura del nucleo familiare colpito da questo grave problema.Forse solo chi vede molti pazienti e da tanti anni lavora sulla sofferenza si rende conto che dire sciocchezze a genitori provati può produrre un malessere maggiore in loro, anziché un aiuto reale e adeguato. A volte, anche giustamente, si sviluppa una rabbia verso il terapeuta-guru, perché l'advertising e il merchandising non curano l'anima!
    La mia posizione, forse un po' ecumenica - come mi rimproverava il mio defunto amico lacaniano Carlo Viganò - tende a vedere la massima integrazione come uno sforzo che vale la pena di fare, superando gli steccati di bandiera: se l'essere umano - con la sua complessità, con le vicende reali che lo determinano, con i bisogni innegabili che lo portano a formulare richieste - è quel noi che ci troviamo di fronte, come possiamo dimenticarci di essere umani? Anche nell'impossibilità di mietere glorie e risultati, anche nell'ignoranza della soluzione del problema, anche in attesa e speranza di un'evoluzione che tarda a venire abbiamo un'etica della relazione umana? La fila interminabile di mail che ricevo dal gruppo milanese del nord Italia è raccapricciante. A parte il primo intervento di Ettore Perrella, poi quello di Pietro Barbetta (un sistemico), che sono stati abbastanza opportuni, continuo a ricevere una fila di mail di dibattito inconsistente: pensa che stamattina ho aperto il PC e mi sono trovato 83 mail...!
    Forse c'è anche nel mondo psi un bisogno di ritrovare un dimensione sociale perduta? Vedremo.... Buona notte Gianni!

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  3. Leggendo su internet un'intervista autobiografica a Di Ciaccia, sono rimasto molto colpito dal particolare riguardante il suo primo incontro con Lacan: lui era un giovane prete, studente all'Università di Lovanio, giunto per la prima volta ad ascoltare un seminario aperto all'Ecole, che lui racconta così:


    ""Alla fine di una mattinata, dopo l’intervento di Safouan, se non ricordo male, durante il dibattito, mi feci coraggio e chiesi la parola.
    Coraggio che poi mi sarebbe mancato per diversi anni.
    Al microfono dissi qualcosa.
    Lacan stava uscendo dalla sala, dalla parte opposta, molto lontano.

    La sera, durante il rinfresco nei locali dell’Ecole freudienne de Paris, in rue Claude Bernard, vedo a un tratto vicino a me Lacan che cammina tra la folla dei presenti.
    Gli prendo la mano per salutarlo.
    Lui si gira, mi guarda e mi chiama per nome.
    Stupito, gli chiesi come sapesse il mio nome.
    Mi rispose che ero io ad averlo detto quando avevo parlato alla fine della mattinata.
    Mi disse: Lei ha detto che un analista non e’ un analista davanti alla propria donna.

    Era infatti la frase che avevo pronunciato: “Mi dica, mon cher, che cosa fa nella vita?”.
    Gli risposi che ero studente di psicologia all’Universita’ di Lovanio e che ero prete.
    Le mie parole gli procurarono come una subitanea gaiezza.

    Prêtre? Etudiant à Louvain? Tra giorni saro’ a Lovanio e mi piacerebbe che lei partecipasse agli incontri che vi faro’.

    “Ma io non sono analista“, gli risposi. “Et alors?“, fece lui.
    Arrangio’ egli stesso la cosa.
    Seduta stante ando’ a cercare tra i presenti Antoon Vergote, che era in compagnia di Alphonse De Waelhens, ambedue famosi professori dell’Universita’ di Lovanio.
    Vergote, all’epoca presidente dell’Ecole Belge de Psychanalyse, dovette cedere, dopo vane resistenze, alla richiesta esplicita di Lacan che io fossi presente a questi incontri.
    Cosi comincio’ la mia avventura con lui"".

    Ora io mi chiedo: quanto c'entra in tutta questa storia il désir dell'allievo e quanto quello del Maestro? A me pare che l'apparizione di Lacan sia stata una specie di epifania divina, una chiamata che avrebbe potuta avvenire sulla via di Gerico duemila anni fa. Allora, se noi avessimo incontrato un giovanotto alto con la barba bicorne che ci avesse chiamati per nome e cognome, probabilmente ci saremmo sentiti degli dei. Non è questo una specie di trauma infantile? Qualcosa che può sequestrarti per tutta la vita?

    Certo per i Maestri scendere in forma di colomba sulla nostra testa e dire che si sono compiaciuti in noi, dev'essere uno jouissement supremo, ma a noi quanto costa?

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  4. Ci costa la vita!

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  5. Giancarlo Signorini7 marzo 2012 alle ore 03:13

    Bravo Gianni, condivido assolutamente le tue affermazioni e le tue critiche. Accade troppo spesso che ci si ammanti di "verità rivelate" per nascondere le nostre incapacità comunicative e relazionali...

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  6. Grazie, Giancarlo, per il tuo apprezzamento. Io credo anche che ci si debba interrogare, come abbiamo fatto al recente congresso OPIFER di Roma, sulle derive religiose cui il pensiero psicoanalitico talvolta soggiace. Se l'uso del "Verbo" magistrale diventa "sacro" e irrinunciabile, la nostra capacità di rimanere in contatto con i nostri pazienti rischia di diventare davvero poca cosa!

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