Perché Wiesbaden 1932


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domenica 5 febbraio 2012

RESISTENZE E MUTUALITA'

La resistenza è stata vista per molto tempo come l’elemento negativo della relazione analitica.
Tuttavia, se si considera l’analisi dal punto di vista dell’interazione e della mutualità, possiamo pensare che, nonostante la sua funzione conflittuale, essa non sia necessariamente al servizio di pulsioni autodistruttive o antivitali.
Ottavio, ad esempio, ha il compito difficilissimo e doloroso di trasferirsi da una dimensione di anestesia dal desiderio nella quale si è autoconfinato per non correre il rischio di sentire i morsi dei bisogni affettivi, a una dimensione nella quale sia possibile sperimentare liberamente il piacere e la gioia. Fra queste due condizioni, vi è però un'intercapedine, un vuoto nel quale è possibile cadere, rivivendo la medesima disperazione sperimentata all'epoca della prima o della più importante esperienza traumatica. Rimasto orfano quand’era giovanissimo dopo essere stato a lungo vittima di una particolare forma di follia familiare, è diventato un uomo adulto e responsabile grazie alle sue sole forze. Ma il prezzo pagato per ottenere questo risultato è stato molto alto: la resilienza, che rende refrattari al dolore, non consente alcuna debolezza, e molto spesso l’Io non è in grado di continuare a pagare indefinitamente, senza ricevere sostentamento e cura. Quindi, l’analisi di Ottavio procede a piccoli passi, e molto spesso mi sorprendo a desiderare che egli afferri la vita con maggiore decisione senza negarsi ciò che oggi chi gli vuol bene è in grado di offrirgli. Ma ciò è contrastato dalla resistenza con la quale Ottavio mi si oppone. In questo senso, la forza del mio desiderio e quella della resistenza, interagendo, producono un effetto di risultante: Ottavio è meno immobile di quanto rischierebbe di essere se non ci fosse l’analisi a spronarlo, ma puntando un po’ i piedi riduce il rischio che si produca uno strappo.

Con certi pazienti non sono capace di lavorare senza passione, e, per fortuna, la loro collaborazione compensa i miei difetti.

11 commenti:

  1. Leggendo ho fatto due associazioni:
    una con l'angoscia del cambiamento, un aspetto che si rivela in modo evidente nel mio lavoro in ambito psichiatrico e di Comunità, in quelle situazioni in cui i pazienti si arenano proprio nelle vicinanze di passi evolutivi, situazioni in cui i commenti dell'equipe sono del tipo "ma come? Proprio adesso che stava meglio..."
    E sull'onda di questa prima associazione arriva la seconda, più da setting analitico: la riflessione di Bromberg sul contrasto-sfida che noi proponiamo ai pazienti, di fidarci e provare ad abbandonare un 'luogo' conosciuto e cambiare; non ho il libro sottomano ma se mi ricordo riprendo la citazione.
    Vittorio

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    1. Due stimoli interessanti: sul primo potresti parlare un po' di più della tua esperienza in merito?
      E sul secondo occorre guardare da parecchi punti di vista il problema. Quello dei nostri pazienti, innanzitutto: ti confesso che in occasione del naufragio della Costa Concordia ho pensato alle "buone ragioni" di coloro la cui vita è limitata dalla presenza di importanti fobie: di quelli che non prenderebbero mai l'aereo, o non salirebbero mai su un ascensore.
      Forse occorre riflettere sul significato che ha, per la nostra vita, il "fidarsi", l'"affidarsi", che, per tanti pazienti che desidererebbero intraprendere un'analisi, è un problema.

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  2. Direi che l'esperienza che mi viene subito in mente riguarda un uomo sulla trentina che è arrivato in Comunità dopo un breve ricovero causato da una sua improvvisa esplosione di rabbia verso la madre, successa dopo che per quasi 15 anni non era uscito di casa, trascorrendo le sue giornate tra la camera e il salotto...
    Penso di poter dire un caso quasi da manuale di schizofrenia paucisintomatica, permeata da quell'autismo così ben descritto da Ballerini. Persona quasi monosillabica in ogni commento, molto intelligente ma con 5 risposte in totale al Rorschach; tento alcuni colloqui ma poi decide di smettere (solo in seguito ho compreso che le mie poche parole erano già troppe... e che l'angoscia per il cambiamento si era manifestata nel suo 'timore' di fronte a qualcuno che se l'era preso a cuore) e lentamente inizia a inserirsi in alcune attività della Comunità. Parliamo con gli Operatori per far capire loro di non stargli addosso con le parole e rispettare il suo silenzio, tenendo a mente le sue notevolissime capacità di memoria, di concentrazione e attenzione; inizia a giocare a calcetto, va alle gite in montagna e contemporaneamente inizia a dire che vuole tornare a casa.
    Dopo qualche settimana si blocca: decide che non ha più "voglia" di fare niente, diventa un pò invisibile.
    La prima sensazione degli Operatori è che stia in qualche modo boicottando la Comunità per dirci che vuol tornare a casa e che star qui non serve più (sono passati 5 mesi dall'ingresso).
    Io e lo psichiatra (persona sensibile e profonda conoscitore della psicopatologia fenomenologica) ci prendiamo tempo per riflettere, pensiamo che, in realtà, la sua paura sia quella che noi lo rimandiamo a casa. Il paziente è chiuso dietro il suo muro di silenzio e risposte secche, non interagisce con nessuno. Ci convinciamo che lui si è bloccato nel momento in cui ha percepito qualcosa di sconosciuto, qualcosa a cui non è abituato, troppo entusiasmo intorno a lui e, mentre il suo verbale chiedeva di tornare a casa, il suo Sé più profondo ci stava chiedendo di non farci ingannare.
    Le cose si sono rimesse lentamente in moto dopo un colloquio con lui nel corso del quale gli abbiamo proposto la nostra opinione, e cioè che forse l'angoscia per i cambiamenti in corso(non in questi termini, naturalmente)era il motivo del suo improvviso stop, ammettendo tranquillamente che c'eravamo fatti un pò prendere dall'entusiasmo ma avevamo capito che lui preferiva velocità più lente e avevamo pensato che ci stesse dicendo di non correre.
    Credo che sia significativo che la notte successiva a questo colloquio il paziente abbia avuto un episodio di enuresi e, tre giorni dopo, sia uscito da solo per farsi una passeggiata.

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  3. Aggiungo un pensiero successivo: può esserci qualche legame tra l'angoscia di cambiamento e l'interpretazione insatura?

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  4. Ripensandoci, mi viene in mente l'idea che le interpretazioni possano essere insature per due ragioni: perché il pensiero nella mente dell'analista è ancora "per strada", oppure perché la formulazione completa del pensiero dell'analista può costituire un carico eccessivo che il paziente non può tollerare perché lo fa soffrire troppo. Nel caso di Otto, ad esempio, credo che la sua possibilità di tollerare ciò che penso circa l'origine traumatica delle sue sofferenze (pensiero che ormai egli conosce bene perché le interpretazioni possono essere insature finché si vuole, ma, dopo anni di analisi, certe cose si sanno)lo porti a respingere violentemente ciò che gli dico, se supero un certo limite. Ci sono momenti in cui ciò di cui egli ha maggiormente bisogno è un ascolto partecipe, assieme alla sensazione che io sperimenti, quasi a livello fisico, il dolore che lui non può descrivere. Se lui avesse potuto sopportare la consapevolezza del mal accoglimento parentale forse avrebbe sofferto di meno i suoi "mali senza nome".

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  5. posso anche aggiungere che Otto è in allarme circa il carattere insaturo di certe mie comunicazioni, proprio perché ha urgenza che la sua versione difensiva sia definitiva.

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  6. Sai Gianni, penso che dal mio post in avanti abbiamo utilizzato il termine 'insaturo' quando in realtà pensavamo 'saturo - saturante'! E ora che facciamo: interpretiamo o meno il lapsus?!

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  7. Pourquoi pas? In ogni caso: non ho capito dove hai trovato l'incongruenza. Io parlavo di "insaturo". L'esempio di Otto credo sia chiaro: non vorrebbe che mi esprimessi compiutamente, per mantenersi in un'area intermedia. E io non lo faccio, non soltanto perché penso che lui non lo tollererebbe, ma anche perché non ho certezze altrettanto definitive di quelle che lui teme.

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  8. Rileggendoti in effeti ho colto la tua 'congruenza': la mia 'incongruenza' sta nel fatto che pensavo a come l'interpretazione saturante possa stimolare l'angoscia di cambiamento, nel senso che, nel suo essere magari precoce, nel suo essere sempre 'troppo' per il paziente, rischia di fargli sentire che qualcosa sta cambiando in un momento in cui lui non è ancora pronto al cambiamento.

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  9. E' effettivamente così: l'interpretazione saturante, oltre ad essere creativamente soffocata dalla propria saturazione e pertanto un po' troppo chiusa ad ulteriori sviluppi, stimola nel paziente una maggiore angoscia del cambiamento rispetto all'interpretazione insatura; anzi, potrebbe provocare addirittura una fuga idiosincrasica. Ma anche l'interpretazione insatura (almeno nel caso di Otto), stimola un'angoscia simile, in quanto il contenuto ulteriore è prefigurato e temuto. Ma tutto si gioca sulla capacità progressiva di entrambi di tollerare la transizione e l'angoscia di cambiamento, dalla quale, in molti casi, non è esente nemmeno l'analista.
    Ma sull'interpretazione satura farei un ulteriore considerazione pensando a quanto suoni deludente dentro di me, nella sua foga anticipatoria. Nelle non frequenti occasioni in cui mi è capitato di correre troppo, ho sperimentato un senso di vuoto, come se dopo non ci fosse più nulla, e neppure un cambiamento tale che possa consolare del dispiacere del commiato.
    L'analista, come Sheherazade, non dovrebbe mai concludere le proprie favole, pena la morte.

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