Perché Wiesbaden 1932


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mercoledì 3 ottobre 2012

LO STATO MENTALE DEL TERAPEUTA


La dott.ssa Amalia L. è la psicoterapeuta di Giorgio, un bambino di terza elementare che all’età di tre anni e mezzo è stato operato per un tumore al cervello. Qualche settimana prima delle vacanze estive, Amalia mi aveva chiesto di aiutarla perché si sentiva in un vicolo cieco: la terapia era iniziata da un paio di mesi ma Giorgio non sembrava voler entrare in relazione con lei, e soprattutto “non toccava la scatola”. La “scatola” è il contenitore dei giocattoli che si usano normalmente in psicoterapia infantile. Mi disse che  Giorgio si limitava a disegnare.
Non trovando nulla di strano in questo comportamento, dissi che avremmo potuto studiare assieme la gran copia di disegni prodotti dal bambino, mettendoli in relazione con lo svolgersi delle sedute, ma Amalia non sembrava particolarmente persuasa che questa soluzione potesse rivelarsi soddisfacente. Appariva invece molto ansiosa di scoprire “dove lei stesse sbagliando”.
Fra tutte le informazioni che Amalia mi fornì ve ne fu una particolarmente inquietante: aveva saputo da un’insegnante che durante il ricovero in ospedale, Giorgio avrebbe “assistito” alla morte di un coetaneo compagno di stanza.
Di fronte a questa notizia, feci un commento che sembrò colpire molto Amalia: “accidenti", osservai: "questo bambino ha già incontrato la morte per ben due volte”.
Udite queste parole, che a me sembravano di un’ovvietà assoluta, Amalia spalancò gli occhi, e si affrettò ad appuntarle sul proprio taccuino.
Confesso che, in quel momento, ebbi dentro di me un moto di fastidio. Possibile, mi dicevo, che una donna laureata in psicologia, da poco diplomata specialista in psicoterapia, senta il bisogno di appuntarsi una considerazione tanto evidente? Il bambino ha avuto un tumore al cervello e ha visto morire un compagno: non sono questi due incontri con la morte? E c’è bisogno di prendere appunti? E’ così bassa la fiducia della collega nella possibilità di trattenere i pensieri che riguardano i suoi pazienti? Poiché avevo in mente troppo poco, non dissi nulla; le vacanze estive erano imminenti, e a settembre, al rientro, ci saremmo rivisti per capire se fosse il caso di procedere a  una supervisione. 
Stamani,  dopo due mesi, ho rivisto Amalia, che, sorridente, mi ha detto che dopo il nostro incontro, le cose sono molto cambiate. “Si vede che il tuo passaggio ha avviato una trasformazione”, mi ha detto Amalia, facendomi sentire un po’ San Francesco. “Pensa, ha aggiunto, che Giorgio mi ha raccontato tutto della malattia e dell’operazione, mi ha fatto vedere i suoi “tagli” (le cicatrici operatorie sul cranio e sul corpo), e infine mi ha detto di aver assistito alla morte di un suo amico”.
A quel punto, mi è tornato in mente l’episodio dell’annotazione che Amalia aveva trascritto, e del moto di impazienza che mi aveva attraversato. Ma questa volta l’ho guardato sotto una luce diversa. Mi sono ricordato della gravidanza di Amalia, della sua gioia e delle sue ansie. Dopo quel pensiero, non avevo più davanti a me una collega in difficoltà, ma una madre spaventata per qualcosa che potrebbe accadere a ogni bambino. Le ho chiesto: “quanti anni ha tuo figlio?” “Tre e mezzo” mi ha risposto. "Quanti anni aveva Giorgio all’epoca dell’operazione?” “Tre anni e mezzo! Anche lui!” ha esclamato con emozionata sorpresa. “Ecco vedi, le ho detto. Quando ti sei trovata di fronte alle angosce di morte di questo bambino, ti sei rifugiata in un isolamento che te lo faceva sentire irraggiungibile. In realtà eri tu che non riuscivi a stare a contatto con tutta quella angoscia. L’ho notato quando ti sei appuntata la mia osservazione sul fatto che il bambino aveva conosciuto troppo presto la morte, come se avessi detto qualcosa di particolarmente intelligente o sofisticato, un insegnamento magistrale da mandare a memoria. In realtà dicevo soltanto qualcosa di evidente, che tu non volevi vedere perché l'idea di perdere un figlio per me, per te, per tutti, è insopportabile. Quando sei uscita da quella supervisione eri tu ad essere trasformata: ti eri aperta, eri diventata finalmente pervia alle comunicazioni di Giorgio, che sono infarcite di contenuti terribili, impensabili.
“Hai ragione”, mi hai risposto. “ora Giorgio è completamente diverso da prima”.
Questo episodio mi ha confermato una volta di più che anche se l'interpretazione può essere illuminante e trasformativa, in psicoterapia ciò che il terapeuta fa o dice conta meno di ciò che egli è: del suo stato mentale, insomma, consapevole o meno che sia.

3 commenti:

  1. mi spaventa un pochino pensare che la riuscita di una terapia sia affidata allo stato mentale dello psicoterapeuta; questo mi fa sentire in pericolo, una specie di cavia..... non sono più una persona in difficoltà da curare ma un caso clinico che vediamo se reagisce bene alla terapia e poi....ops ma guarda... non guarisce..... e giù mille pippe mentali sul perchè e invece..... uno magari non guarisce perchè il dottore non è nel giusto stato mentale.....ma tanto uno non lo può chiedere...al dottore.... tanto non ci sarà nessuna risposta.....e questo non avere risposte, ìsebbene all'inizio l'ho pensato come una cosa fantastica.... un totale rispetto per la mia persona...ora lo vedo solo come subdolo mezzo per incastrare anime ..... come sottrarsi alla seduzione di che non parla?.... e la beffa è che non ha niente da dire.....

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  2. Gentile Anonimo o Anonima, quella che lei solleva è una questione molto importante, che però, mi perdoni, mi sembra risentire di una percezione un po' irrealistica della psicoterapia , e cioè che essa sia una scienza esatta, anzi, una specie di farmaco che cura di per sè, e alla sola condizione di essere applicato secondo una certa idea di rigore. In questo, lei è in ottima compagnia: persino Freud aveva a lungo vagheggiato di mettere a punto un metodo "obbiettivo" e facile da usare in chiunque fosse persuaso dell'esistenza dell'inconscio, ma fu costretto a ricredersi piuttosto presto.
    Non è così perché, almeno in psicoterapia, il "farmaco" è il terapeuta stesso, che non può fare a meno di portare tutto se stesso in aiuto del paziente: la propria competenza e la propria esperienza professionale, ma anche la propria affettività con tutto l'inconscio, e persino con i nodi conflittuali irrisolti, visto che non esiste trattamento che li superi tutti e per sempre. Uno psicoterapeuta non è un ferro chirurgico sterile: esso "si sporca" esattamente come gli altri, e tuttavia deve avere uno strumento autoscopico in più per poter essere efficace. Questo strumento è la capacità di autoanalisi continua, che gli deriva da una buona e lunga analisi personale e dal continuo lavoro di auto- ed etero-supervisione (svolta assieme a colleghi più esperti o anche pari grado, o attraverso un dialogo fitto e incessante con i più giovani), capace di mantenerne alta la vigilanza e l'attitudine a guardarsi allo specchio.
    Lo stato mentale "non giusto" dell'analista dipende proprio dall'incapacità di superare quegli ostacoli di comprensione e di sintonia che egli deve poter essere in grado di avvertire e correggere anche riconoscendoli onestamente e apertamente con il proprio paziente (non di rado con il suo aiuto) del quale deve imparare a riconoscere i segnali di malessere verso il trattamento senza soffocarli con il proprio diniego o il cedimento a formule stereotipate, che celano in realtà il rifiuto di rimettersi continuamente in gioco.

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    1. Cara Francesca, quello che lei dice è molto doloroso, e credo che necessiti assolutamente di una messa a punto, nel senso che lei ha bisogno di parlarne, in forma più riservata di quanto possiamo fare sulle pagine del Blog, con qualcuno che non le impedisca di esprimere TUTTO quello che lei vuol dire. E' possibbile che il suo terapeuta non sia stato in grado di ascoltarla: nessuno di noi è esente da malfunzionamenti. Però lei non deve assolutamente scoraggiarsi, ma piuttosto ritentare: eventualmente con qualcun altro. Se lei intende cambiare interlocutore e non sa a chi rivolgersi mi scriva pure: anche se non so ancora dove lei risiede, c'è la possibilità che io conosca qualcuno che faccia al suo caso e la riceva in una località per lei comoda (se lei abitasse nell'area genovese, potrei vederla io).
      Non si scoraggi, e continui a partecipare al Blog: le sue osservazioni sono utili e bene accolte.

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