Perché Wiesbaden 1932


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sabato 20 ottobre 2012

PENSIERI DI UN PORTIERE D'ALBERGO


Io non me lo ricordo, ma quella volta ai nastri di partenza eravamo milioni. Avessi avuto l'esperienza del dopo, mai e poi mai mi sarei sognato di vincere. Ma, grazie al buio di quell'ignoranza assoluta che nulla concede alla sfiducia o al super-Io castrante, corsi e corsi e corsi, e arrivai, incredibilmente, primo. Anzi unico. E dire che in seguito non sarebbe mai più successo: anzi, essendo io sempre un po' grasso, lento e scoordinato, avrei ben presto rinunciato a correre, e, soprattutto, a gareggiare.
Ma quella volta andò così e fui insignito dell'alloro. Quando vinci, però, un minuto dopo sei di nuovo davanti a un'altra sfida, ma per parecchio tempo fui senza concorrenti.
Quando uscii fuori, poi, mi resi conto molto presto che dovevo muovermi con circospezione assoluta, perché il paesaggio era pieno di macerie di guerra. Anzi di molte guerre: la prima e più devastante era appena finita, e nelle fotografie di allora sono assieme a mio padre e mia madre vicino a una colonna con gli stemmi delle repubbliche marinare, mezza sbriciolata. Una colonna che non avrei più rivisto. E poi c'erano le guerre piccole, fatte di battaglie il cui fischiare di pallottole mi faceva bruciare la pelle. Ma in qualche modo me la cavai sempre, anche se tutto il dolore che c'era attorno a me avrei dovuto portarlo sulle spalle per un tempo lunghissimo. Forse fu proprio quel peso sulle spalle a rallentare la mia corsa, e forse fu per questo che non mi mossi mai più con la velocità della prima volta. Ma qualcuno che viaggiava con me portando lo stesso peso non ce la fece ad arrivare in fondo, e ancora una volta mi trovai a correre da solo.
Sono stato un corridore fortunato, nonostante tutto. Alla fine ho sempre vinto: non senza sforzo, né con l'oro del primo posto, magari con eccessiva lentezza, ma alla fine sono sempre arrivato alla meta con poche ammaccature. Una fu più dolorosa e lunga a guarire delle altre, ma alla fine anche quella smise di far male (solo ogni tanto, si fa sentire ancora). E in fondo a tutto c'è lei, la Signora, quella che vince sempre. Anche con lei dovrò gareggiare, fino alla corsa più difficile, quella in cui è matematicamente sicuro che perderò. Finora si è fatta vedere da lontano, come chi non ha troppa fretta d'incontrarti. Ma il tempo che resta prima dell'inizio dell'ultima manche corre veloce.

Ieri, alla reception della pensione che guarda sul lago, si è presentata una sconosciuta, di nome Soledad. Non era prenotata, ma siccome avevo una stanza libera, non c'è stato problema ad accoglierla. È una donna in là negli anni. Dev'essere stata molto bella da giovane: lo si capisce dai lineamenti del viso, dai suoi occhi, e soprattutto dalle mani. Mi pare anzi di capire che sia stata una tombeuse d'hommes, una stracciacuori. Ha avuto quattro mariti e un certo numero di figli, e proviene da una famiglia che non sembra averle lasciato, al contrario della maggior parte degli altri miei ospiti, gravi ferite nell'anima. Eppure  tutti i suoi racconti sono coperti da un velo uniforme di tristezza. Alcuni anni fa ha incontrato anche lei la Signora, che però le è andata molto vicina. Infinitamente più vicina che a me.
Ora, il problema sembra quello di cercare, durante il lungo soggiorno in questa pensione che guarda sul lago, una cura ricostituente, una qualche acqua termale che le restituisca quella vitalità di cui mi racconta di essere stata tanto ricca. Benvenuta Soledad, le ho detto, mentre registravo i suoi documenti. Poi, quando è salita in camera, mi sono chiesto: qui la gente viene a prendere qualcosa che io ho. Ma siccome anch'io, come Soledad, ho un appuntamento indefinito con la Signora, mi chiedo dove prenderò quello che le serve. Ma non preoccupiamoci, ho finito per pensare. Il viaggio certamente ha un capolinea, ma il panorama che incontreremo prima di arrivare a destinazione potrà essere molto, molto bello.

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