Perché Wiesbaden 1932


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mercoledì 3 ottobre 2012

SUL SENSO DI FIDUCIA

John Bowlby, che tentò con successo di coniugare la psicoanalisi all’etologia, osservò che i cuccioli dei primati usano  il corpo della madre come una “base” a cui rimanere aggrappati e dalla quale allontanarsi progressivamente, salvo ritornarvi al minimo segnale di pericolo, in un processo che li familiarizza con l’ambiente esterno, denso di pericoli e popolato di predatori. In conseguenza di questo processo di autonomizzazione lenta e progressiva, l’individuo acquisisce una funzione interna che l’Autore ha chiamato “base sicura” e che consiste nella capacità autonoma di ricognizione e di vigilanza a scopo autoprotettivo, ereditata per via introiettiva dal caregiver.
Tale concetto assomiglia per molti versi a quello di “fiducia di base” (basic trust), teorizzato da Erik Erikson, secondo il quale, il bambino, appena entrato nel mondo succedaneo all’ambiente intrauterino, può sopportarne le spigolosità e i potenziali pericoli delegando ai genitori quasi tutte le funzioni deputate alla conservazione. Soltanto nell’ignoranza della propria mortalità e vulnerabilità, l’essere umano, privo di difese autonome, può percorrere un lungo tratto iniziale della vita senza soccombere all’angoscia.
Tuttavia, quando il processo giunge a un certo grado di maturazione, è necessario che tale delega cessi. Con l’acquisizione progressiva di abilità e competenze, il senso di fiducia, inizialmente rivolto alle figure di accudimento, subisce una flessione verso l’interno, dove ora risiedono le risorse indispensabili all’autoconservazione.
Tale processo è però condizionato dal fatto che anche le figure di accudimento, capaci di normale sollecitudine parentale, cedano in qualche modo il proprio compito di presidio ambientale, fidando nella bontà e nella maturità del “genitore interno” in tal modo formatosi nel figlio.
Si può dire quindi che l’acquisizione della fiducia nelle proprie capacità è un processo estremamente delicato e complesso che si fonda su una progressiva cessione di competenza da parte dei caregiver e di presa in carico del medesimo da parte del soggetto in età evolutiva. Una combinazione cioè fra la naturale predisposizione allo sviluppo e l’incontro con un ambiente che tale sviluppo promuova anziché ostacolare.
Ciò è quanto dovrebbe accadere in situazioni standard, caratterizzate da un felice accoglimento del neonato in famiglia, e da una buona dotazione di maturità da parte dei genitori che non dovrebbero essere eccessivamente ansiosi né troppo distanti. Ma la clinica ci mette quotidianamente a contatto con situazioni meno ideali.

Lucrezia è una ragazza di vent’anni che i genitori considerano poco affidabile. L’eccesso di angoscia nei confronti dei pericoli del mondo la spinge da un lato a fare un affidamento esagerato nella propria famiglia, integrato da un eccesso di fobie: in particolare da una marcata tanatofobia relativa ai genitori.
A dispetto di un atteggiamento così cauto e difeso, Lucrezia, durante la prima adolescenza, si è per due volte “perduta”, sparendo totalmente dalla normale attenzione dei genitori: una volta su di un treno che l’ha portata fuori regione e una seconda volta, sbagliando nel prendere un mezzo pubblico, si è trovata in aperta campagna in ore serali, al buio, sulle alture circostanti la città. In entrambi i casi il telefono cellulare di Lucrezia era risultato fuori uso.
In pratica, Lucrezia, che è figlia unica, non può fare sufficiente affidamento nella propria lucidità, carenza che compensa con un eccesso di allarme nei confronti di pericoli inesistenti o irrilevanti (ad esempio la puntura di insetti che teme come potenzialmente velenosa) e con un eccesso di angoscia relativa alla futura scomparsa degli ancor giovani genitori.
Recentemente, Lucrezia ha avuto un comportamento assolutamente imprevisto da parte di chi la conosce, ivi compreso il Collega che l’ha in cura. A seguito di una discussione banale durante la quale la ragazza ha accusato ripetutamene i genitori di “non avere fiducia in lei”, Lucrezia decide di “andar via di casa”, progetto irrealizzabile data la condizione di incapacità economica della ragazza, ancora agli inizi del percorso universitario. Ciononostante, lei decide di occupare l’appartamento vuoto di una zia temporaneamente assente ubicato in una zona periferica e lontana da casa. Il suo progetto è quello di rimanere in quel luogo fino al ritorno della zia, previsto dopo un mese, dopodiché farà ritorno in famiglia.

L’episodio parrebbe un poco rilevante “colpo di testa” per la sua apparente ingenuità, ma durante le ore che seguono, nei genitori comincia a farsi strada l’idea che il tentativo della ragazza, solo in apparenza polemico e melodrammatico, sia in realtà finalizzato all’esigenza, che era fino a quel momento passata inosservata, di mettersi alla prova in maniera non semplicemente infantile, ma utile a rimettere in moto una situazione ormai stagnante.
Durante l’esperimento, la ragazza afferma di volersi mantenere con i propri modesti risparmi e con le “paghette” settimanali che i genitori continueranno a corrisponderle. L’operazione è per molti versi irrealistica, ma ciò che sorprende è l’inaspettata determinazione e la relativa serenità della ragazza.
Con uno sforzo emotivo non privo di momenti depressivi (“mi sembra di star soffrendo di un maternity blues”, mi dirà il padre che mi interpella per un parere), i genitori decidono di stare al gioco. Durante le ore seguenti, entrambi si confidano reciprocamente di essere usi a fare fantasie terrificanti (stupri, omicidi, ecc.) circa i pericoli che la ragazza potrebbe correre ogni volta che non sia “coperta” dal loro controllo o da quello di qualche altra persona affidabile (anche coetanea di Lucrezia) la cui presenza ha su di loro un effetto rassicurante.
Quando la vicenda mi viene esposta, la situazione appare caratterizzata da un circolo vizioso: la sfiducia che Lucrezia ha nelle proprie capacità aumenta la sfiducia dei genitori, la quale a sua volta fa diminuire ulteriormente l’autostima della ragazza. L’esito inaspettato (e confortante) di tale vicenda consiste nella “rottura” di tale situazione di stallo che viene operata per volontà dell'interessata medesima e a dispetto delle proprie fobie, che a questo punto appaiono come il reciproco delle angosce dei genitori. Questi ultimi, raggiungendo dosi ulteriori di insight riconoscono di sentirsi leggermente a disagio persino quando Lucrezia è fuori casa in condizioni di sicurezza. La ragazza ha raggiunto una maturità sufficiente a comprendere che l’aiuto che può ricevere dai propri genitori è limitato da queste difficoltà. Per questa ragione, si può giungere a ipotizzare che anche i due precedenti “smarrimenti nel bosco” siano stati dei rudimentali tentativi di rompere un meccanismo circolare da troppo tempo operante.

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