Perché Wiesbaden 1932


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Detto ciò, benvenuti nel mio Blog, angolo per riflessioni da condividere con colleghi e amici selezionati.











venerdì 27 giugno 2014

LA GRANDE TRUTH

“The truth is beauty, the beauty is truth”: verità e bellezza come quasi sinonimi. Molti anni fa, negli anni settanta, questo aforisma era uscito, con tono secco e ispirato, dalla bocca di Donald Meltzer, durante uno dei memorabili seminari organizzati a Perugia  da Carlo Brutti e Franco Scotti.
Quelle parole mi erano sembrate strane e incomprensibili, forse addirittura arroganti nella loro perentorietà. Sarà stato perché allora, la parola “bellezza” aveva ancora un sapore scolastico, e mi faceva venire in mente, in maniera intellettualistica e anaffettiva, unicamente il Canone di Policleto. Oppure sarà stato perché dalle verità sul mio conto che dovevo ancora scoprire, tutto m’aspettavo tranne che fossero belle o anche solo attraenti. E così, d’un tratto, il desiderio di confrontarmi su un piano di accessibilità con un “grande” della psicoanalisi, subiva un arresto improvviso, rivelandomi una dimensione di pensiero irraggiungibile e misteriosa.
Questa frase mi è tornata in mente oggi, quando, camminando per strada, il mio sguardo si è posato sulla foto di Toni Servillo vestito dei panni (molto studiatamente raffinati) di Jepp Gambardella, il protagonista de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino.
Ho ripensato a quelle parole che riassumono tutto il film: alla “Santa” che gli chiede “perché non hai mai più scritto un libro?”, risponde: “perché cercavo la grande bellezza, ma … non l’ho trovata” . E lei: “lo sai perché io mi nutro di radici? Le radici sono importanti….”
Ma prima, nel riflettere sul passato, il protagonista aveva raccontato il proprio errore percettivo senza tuttavia poterlo ancora riconoscere: “io non volevo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Ecco: essere belli e vestiti in certo modo, essere “il re dei mondani”, andare il televisione, è la grande e inconsolabile tristezza. Perché è una bellezza disgiunta dalla verità. Anzi: un’apparenza che si nutre, e si gonfia fino a scoppiare, di inautenticità.
A sentire le parole della Santa, sembra che si possa ritrovare l’autenticità soltanto nutrendosi delle proprie radici. Forse, noi abbiamo una necessità vitale di stringere saldamente fra le mani la nostra storia, e per farlo dobbiamo riuscire ad amarla nei suoi avallamenti e nei suoi picchi, nelle sue miserie e nelle sue grandezze.
Se la bellezza è la verità, se la verità è ciò che (non) sappiamo di noi stessi, tutto ciò diventa comprensibile soltanto quando acquisiamo la capacità di leggere le nostre radici.

E’ per questo che, durante tutta la mia vita professionale, fra gli scarni ferri del mestiere, ho sempre attribuito un posto speciale alla ricerca, meticolosa e dettagliata, dell’anamnesi, cioè della storia personale, e persino pre-natale delle persone che mi erano state affidate. Perché soltanto così si scoprono le radici: quelle dei pazienti che si rivolgono a noi, ma soprattutto le nostre. Per scoprire le quali ci possono venire in soccorso soltanto la filosofia, la grande letteratura, l’arte, la grande musica, e per le anime più semplici come la mia, la psicoanalisi. Ma non qualsiasi psicoanalisi. Soltanto quella capace di amare qualcosa oltre se stessa. E di saperne cogliere l’invisibile bellezza.

martedì 10 giugno 2014

ERGO SUM

L'uomo anziano passeggia nervosamente lungo il corridoio nella casa dell'amico. È stato un noto psicoanalista, uno studioso, l'autore di libri tradotti in molte lingue, un uomo famoso. Tutto ciò si è arrestato improvvisamente il giorno in cui è stato colpito da un ictus, dal quale, secondo il suo neurologo, è poi "guarito". Tutto il suo corpo risponde ora ai movimenti, e se non fosse per quella maledetta depressione che lo atterra, potrebbe fare una vita da uomo normale. Ma che cosa è normale? Una gran parte dei suoi ricordi se ne sono andati come files cestinati per sempre: operazione non reversibile. La sua incessante attività di studioso non potrà mai più riprendere.
L'uomo passeggia, scorrendo le costole dei libri in vista sugli scaffali della libreria dell'ospite. A un tratto è preso da una silenziosa frenesia, e ne estrae un volume massiccio scritto da un autore straniero fra i più famosi, di cui egli è stato l'editor italiano.  Ne scorre nervosamente alcune pagine, poi va al frontespizio: qui inizia a scorrerne con l'indice prima il nome dell'autore, poi il titolo, quindi il sottotitolo, per arrivare a leggerne il nome del curatore dell'edizione italiana, che è il suo. L'uomo emette un sospiro di sollievo, seguito da un cenno di assenso con la testa. Con l'aria finalmente sollevata, chiude il libro e lo ripone con cura nello spazio dal quale lo aveva estratto. La sua vita, tutta quella vita passata a inseguire sogni propri e altrui, e a distillarne pensieri da fissare sulla carta, non è più dentro di lui, e non vi tornerà. Stasera gli basta pensare che è da qualche parte, là fuori. E che vive di una vita propria.

lunedì 5 maggio 2014

IL «ROMANZO FAMILIARE» DELLA PSICOANALISI


Quando, nel settembre 1897, in una famosa lettera a Fliess ("non credo più ai miei neurotica")  Freud giunge ad abbandonare la Teoria della Seduzione, lo fa spinto dalla propria incredulità di fronte al ripetersi di fenomeni incestuosi nelle famiglie dei suoi pazienti: una frequenza che gli appare irrealistica.

Altre ragioni più sottili sono state addotte per spiegare quello che Bowlby definirà "un disastroso voltafaccia", ma qui mi vorrei limitare a considerare alla lettera il metodo di indagine adottato da Freud, mettendo provvisoriamente da parte ogni altra motivazione personale (quelle ad esempio descritte da Marianne Krüll, in relazione ai conflitti con il padre Jacob) o "politica" (quelle ipotizzate da Jeffrey Moussajeff Masson, a proposito dell'esigenza di Freud di temperare le tensioni con  l'ambiente scientifico e sociale viennese a lui contemporaneo).

Nella Minuta M a Fliess del 25 Maggio 1897, Freud espone all'amico il processo associativo dell'esperienza traumatica (che dà ancora per certa) con la fantasia, così come se la sta raffigurando a quel punto della sua speculazione.

In questo testo sono contenute importanti intuizioni relative a un concetto la cui fortuna si svilupperà cento anni dopo, vale a dire il "transgenerazionale". Ma è la preoccupazione monotematica di fondo a impedire a Freud di liberare la fantasia in più direzioni non ostacolate dal timore, veramente eccessivo, di contraddirsi.

In questa prospettiva i sintomi dei figli sono spesso, per Freud, "riletture" e interpretazioni dei conflitti appartenuti ai genitori o agli avi, ma in una prospettiva troppo condizionata dall'idea pansessualista di fondo.

"L'agorafobia -scrive fra l'altro- sembra dipendere da un romanzo di prostituzione, che riconduce a un romanzo familiare": laddove per "romanzo" intende una ricostruzione romanzata ma dal nucleo storicamente vero dei conflitti domestici.

"Una donna che non vuole uscire da sola -prosegue- afferma quindi l'infedeltà della madre".

Molti anni più tardi, la psicoanalisi, liberandosi dalla necessità coatta di non divergere dalle ipotesi del Fondatore, rifletterà sui concetti di simbiosi, di separazione, accettando anche il concetto, originariamente junghiano, di individuazione; argomenti, questi, che contribuiscono a spiegare l'agorafobia in una dimensione aperta e non più condizionata dal dogma del conflitto sessuale originario, che rende il pensiero drammaticamente asfittico. Nello stesso tempo, i traumi sessuali "reali" , e tutti i traumi esogeni in generale, continueranno a essere interdetti all'attenzione degli psicoanalisti, in obbedienza a un errore di prospettiva destinato a perpetuarsi in "eterno", come un "romanzo familiare" patogeno.

venerdì 25 aprile 2014

SULLA COMPASSIONE

In una lettera datata 8 Marzo 1895, Freud scrive all'amico Wilhelm Fliess, celebre otorinolaringoiatra berlinese, una lettera molto turbata, con la quale lo mette al corrente dell'esito imprevisto e sfavorevole dell'intervento di asportazione di un turbinato nasale a Emma Eckstein, amica di famiglia e paziente di Freud.
Emma è ammalata d'isteria, in un'epoca in cui la psicoanalisi non ha ancora raggiunto una propria maturità di disciplina scientifica. Freud sta compiendo i primi passi nella cura delle nevrosi, e da tre anni ha stretto un rapporto di intima amicizia con il medico berlinese.
Quest'ultimo sta sviluppando una teoria eziologica dei disturbi isterici, che in qualche modo "incrocia" gli studi freudiani, secondo la quale i fenomeni isterici sarebbero riconducibili a una presunta relazione, nella corpo femminile, fra le mucose nasali e i genitali, da cui ha tratto una teoria definibile come della "nevrosi nasale riflessa".
In breve, Fliess consiglia l'amico di operare al naso Emma, ma l'operazione si risolve in un clamoroso disastro. Non soltanto, l'esistenza di "punti genitali del naso" che avrebbero un ruolo
eziologico nella genesi della malattia è pura fantasia, ma l'operazione va incontro a un gravissimo incidente: Fliess, venuto apposta a Vienna da Berlino per operare la paziente, non si avvede che un lembo di garza allo iodoformio è rimasta in una cavità ossea vicina al naso (seno paranasale), e provoca alla paziente conseguenze post-operatorie pericolose per la stessa vita, che verranno scongiurate dal tempestivo intervento del prof. Gersuny, un otorinolaringoiatra viennese chiamato da Freud giorni dopo il ritorno di Fliess a Berlino.
L'episodio, sul quale si è scritto moltissimo, è l'argomento sottostante il celebre "Sogno dell'iniezione a Irma", considerato lo "specimen dream" dell'"Interpretazione dei Sogni" (1899), l'opera forse più importante del Viennese.
Rileggendo ora la lettera scritta da Freud a Fliess poco dopo l’incidente, vengo colpito da alcune frasi nelle quali ricorre la parola "compassione".
Freud si trova in una situazione di grave imbarazzo, ed è dilaniato da pesantissimi sentimenti di colpa e di vergogna. La sua determinazione nel ricercare l'eziologia sessuale al fondo di ogni nevrosi, lo condurrà, come nel caso clinico del Presidente Schreber, a trascurare vari elementi d'indagine in favore della conferma dei propri presupposti teorici. Per questo a me sembra che il senso di colpa espresso attraverso il "sogno di Irma" contenga anche un elemento concernente tale percorso d'indagine scientifica. Durante il sogno, infatti, viene riscontrata nella paziente un'infiltrazione dovuta a una manovra medica errata, questa volta l'iniezione di un composto chimico, la
trimetilamina, che richiama, per le sue caratteristiche organolettiche, la sessualità. Forse, pensa Freud durante il sogno, "l'ago non era pulito".
Il senso di colpa è quindi causato da una doppia manovra erronea e in parte violenta: l'aggressione chirurgica che residua un corpo estraneo nel corpo dell'ammalata e l'intrusione forzata di un elemento eziologico che non c'è: non l'interessamento nasale nelle vie nervose che dovrebbero essere coinvolte del processo isterico. E accanto ad esso, neppure, forse -mi permetto di arguire- la sessualità come elemento onnipresente e pervasivo.
L'introduzione di questi elementi richiede un certo grado di tacitamento del senso di colpa, normale del resto, nella professione chirurgica quale premessa a un'aggressione cruenta a fini esclusivamente terapeutici. Da questi atti medici è estromessa la compassione, ovvero l'identificazione con la sofferenza dell'ammalato e con la sua paura.
Nella lettera a Fliess, Freud è in grave conflitto perché vorrebbe accusare l'amico di un atto barbaro e insensato, ma prima di tutto deve accusare se stesso (da cui poi il sogno, a esercitare una funzione traumatolitica e consolatoria) per aver accettato e favorito l'intervento.
Dopo aver dichiarato non senza sforzo che non intende rivolgere accuse all'amico, Freud invita se stesso e l'altro al recupero di un elemento psichico prima censurato in entrambi: per l'appunto, la compassione.
"Ora -scrive- dopo che ci ho riflettuto sopra, non resta altro che una sincera compassione per quella figliola". E più avanti: "Naturalmente, nessuno ti muove un appunto, e non saprei nemmeno chi potrebbe farlo. Spero solamente che anche tu arriverai, come me e altrettanto rapidamente, a provar compassione, e sta pur certo che non mi è stato necessario ristabilire la mia fiducia in te.
Desidero soltanto aggiungere che per un giorno ho esitato a comunicarti l'accaduto, poi ho incominciato a vergognarmi, ed ecco qui la lettera". (Sigmund Freud, Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904. Edizione integrale a cura di J. M. Masson. Torino: Boringhieri 1986).
Perché mi colpisce questo ripetuto richiamo alla compassione? Forse perché esso si colloca a un bivio dell'affettività del medico. Ostacolo indesiderabile laddove si debba procedere in maniera cruenta e dolorosa per salvare la vita a un paziente, la compassione (parola etimologicamente affine a termini come "simpatia" ed "empatia") è un sentimento di marca materna, espulso dalla cultura medica maschile dalla coscienza "militarizzata" in funzione della guerra al "nemico" identificato con il "morbo", l'agente patogeno, il tumore, in obbedienza alla disposizione affettiva che Franco Fornari chiamava "codice paterno".
Ma l'improvviso richiamo alla "pietas" materna, che coglie Freud nel momento del dolore e della vergogna, è la necessità di riappropriarsi di una dimensione che nulla più trascuri di tutto ciò che è umano. La questione di una cura condotta con uno sguardo materno oppure paterno sarà destinata, negli anni a venire, a costellare anche dolorosamente il lungo confronto affettivo e conflittuale tra Sigmund Freud e Sándor Ferenczi.

domenica 30 marzo 2014

RECIPROCITÀ

Carla è una collega con la quale sto progettando un lavoro comune; in passato sono stato uno dei suoi supervisori. Oggi noi abbiamo un rapporto molto "alla pari", però in lei è rimasto qualcosa di quel rispetto un po' "reverenziale" che spesso, nelle relazioni magistrali, residua fra gli allievi psicoterapeuti non di rado frenandone la crescita. Almeno a me, da discepolo, era accaduto questo, e perciò oggi, nelle relazioni con chi mi è transitoriamente allievo, cerco di essere attento a non lasciar crescere troppo l'idealizzazione, ricordando sempre, a me stesso prima che ad altri, ciò che spesso ripeteva un mio professore di liceo: "tutti nasciamo nudi", per dire che, alla fin fine, ci riconosciamo tutti nelle medesime difficoltà, e soffriamo di identici timori. In fondo, fra i peccati originali della Psicoanalisi, vi è anche quello di un Maestro che si lasciò ripetere dagli allievi: "Lei è l'unica persona che non ha bisogno di analisi, avendo già capito tutto". Fu davvero un delitto che ciò sia passato senza essere messo al vaglio della potente lente psicoanalitica, perché si permise che un pensiero tanto superstizioso e subalterno inquinasse gravemente le sorgenti di un sapere rivoluzionario.
Sono qui, con Carla, ma non sono sereno. Dobbiamo progettare un lavoro tutto nuovo, che sostituirà, almeno parzalmente, il lavoro pubblico che sto lasciando dopo un quarto di secolo di attività, nel quale la mia identità personale  si è in buona parte incarnata. Sono in lutto: mentre stiamo parlando perdo spesso il filo del discorso perché altri pensieri mi attraversano la mente.
Carla mi dice: "sei depresso!", ma subito sembra spaventata di aver "osato" ciò che evidentemente ritiene essere un eccesso di confidenza.
"Hai ragione" rispondo. E vorrei cominciare a parlarle del fatto che i miei percorsi quotidiani stanno cambiando, le mie abitudini mutano radicalmente, i punti di riferimento, le scadenze orarie: tutto è improvvisamente diverso da come era prima, e mi devo adattare. Niente di drammatico, nulla che possa essere paragonato a un'angoscia grave o inquietante. Ma un senso di perdita, un nuovo e irrimediabile modo di guardare il futuro sono ormai qui.
Questo vorrei dire a Carla, ma non riesco. Mentre sto iniziando ad aprirmi, vengo alluvionato da un fiume di parole che vorrebbero essere rassicuranti e ottimistiche, ma che hanno quale unico effetto quello di impedirmi di parlare. Il mio senso di oppressione aumenta.
A un certo punto la interrompo: "chi è, ora, il paziente?". Carla rimane per un attimo interdetta: "come chi è il paziente? C'è un paziente?". "Io sono il paziente" rispondo. "Mi sto aprendo con te che mi ascolti. E se sono il paziente, devi lasciarmi parlare".
Intendiamoci: conosco Carla da molti anni, avendola vista lavorare bene con pazienti difficili. In lei ho totale fiducia. Quindi credo che questo suo atteggiamento scarsamente accogliente sia il prodotto, momentaneo e assolutamente inusuale, del suo timore reverenziale per me. Io mi sono rivolto a lei cercando ospitalità, spazi mentali aperti e accoglienti per poter pensare. Avevo, come ogni paziente, bisogno di vuoti, non di pieni. Di una casa dove rifugiarmi, non di comizi o di buoni consigli.

Carla si è trovata all'improvviso sprovvista della propria abituale saggezza terapeutica perché imbarazzata dall'occuparsi per una volta di me anziché io di lei. Mi ha persino ricordato che, in un tempo lontano, aveva fantasticato di chiedermi di diventare  suo analista. Come è possibile che ora le parti si invertano? Cos'è questa storia che i genitori invecchiano? Com'è possibile che, a un certo punto, dobbiamo diventare noi i genitori di chi ci ha messo al mondo? Sulla nave che li trasportava in America, Freud ascoltava volentieri i sogni di Jung e Ferenczi, ma quando venne il suo turno, accampò scuse, si sentì male, disse di non poter rinunciare "alla propria autorevolezza". Quell'immodestia diede un contributo non secondario all'allontanamento di Jung e contribuì non poco all'infelicità di Ferenczi. Ma soprattutto inserì nel  DNA spirituale di una grande famiglia scientifica il gene della sottomissione.

P.S.: so bene che ciò che ho appena scritto farà arrabbiare qualcuno. E' proprio a loro che lo dedico.

sabato 29 marzo 2014

FILOFILIA

Leggo in un articolo le parole "filofobia" e "anoressia affettiva" che definiscono le difficoltà relazionali di persone che si isolano dal contesto sociale, conducendo una vita impoverita, anche se non sono psicotiche, né tantomeno possono definirsi autistiche.
Il pensiero torna immediatamente a Giovanna e alla conversazione che abbiamo avuto ieri sera: è una donna giovane, bella, intelligente: una "bella persona". Ha studiato molto ed è in possesso di conoscenze tecniche e linguistiche che le possono dare grandi soddisfazioni nel campo delle relazioni internazionali. Eppure è terribilmente sola, ambivalentemente legata a una famiglia che non l'ha mai sostenuta, svalutando molto le sue risorse intellettive, che Giovanna ha dovuto difendere con le unghie.
Oggi Giovanna vive lontana dai genitori anche se di questa lontananza porta con sé un persistente rimorso. E non ha un partner con cui dividere la propria vita, perché teme di trovare qualcuno che, al pari di suo padre, possa farle del male.
Ieri sera mi raccontava del suo precario attraversare gruppi e associazioni dove trovare un po' di compagnia. Anche la sua vita sessuale è quasi del tutto inesistente.
Le dico che mi fa tristezza pensare che lei si iscriva a un circolo per sentirsi meno sola: dopo un po' quella convivenza forzata le peserà in maniera insopportabile; dopo un po' vedrà soltanto i conflitti e le piccole rivalità, e le sfuggiranno i legami che potrebbero rivelarsi promettenti. Osserva che finora è sempre stato così.
Aggiungo che la prima socialità di cui c'è bisogno è negli affetti intimi: per poter creare "rete" c'è bisogno di una famiglia, di una coppia dalla quale partire; lei è completamente sola.
Il riflettere sulla vita di Giovanna mi consente di rispecchiarmi in lei: anche io sto attraversando un momento nel quale le reti di appartenenza si fanno problematiche: sto andando in pensione, dopo venticinque anni trascorsi all'interno di una "famiglia" professionale.
Dentro questa "rete" c'erano cerchi concentrici di relazioni più e meno strette. Per anni ho visto allontanarsi decine di colleghi e arrivarne altri. Molte separazioni mi hanno provocato un sottile dolore, altre meno. Oggi sono io ad andarmene: non per votarmi alla solitudine, ma per entrare in nuovi mondi, finora sconosciuti. Niente  più dell'incontro con ciò che ci è estraneo insinua in noi e negli altri il tarlo della diffidenza. Ma per fortuna capita anche di incontrare sorrisi accoglienti, che fra un po' ci diventeranno familiari. Forse è qualcosa che portiamo in noi a comunicare un senso di maggiore o minore allarme nello sconosciuto con il quale dobbiamo condividere uno spazio ristretto.
E poi ci sono i pazienti, la famiglia che mi porto al seguito, coloro le cui vite intime sono autorizzato ad attraversare per cercare di farne un nido, un'abitazione reciproca. Mai come oggi mi sono sentito grato verso i miei pazienti, facce domestiche nell'attraversamento dell'unheimlich.

ORTODOSSIA E APPARTENENZA

Nella psicoanalisi la coesistenza di potenti anticorpi antidogmatici con un sorprendente e regressivo livello di adesione clericale a un credo assolutistico capace di patologizzare il dissenso in nome dell'ortodossia, rappresenta una contraddizione tutt'ora inspiegata.
Viene però il dubbio che la cecità scientifica che ha impedito ai seguaci di Freud di affrontare con animo laico la pietra angolare rappresentata dal trauma e dal traumatico sia riconducibile più che a una svista scientifica a un bisogno di appartenenza.
Non c'è dubbio che il movimento psicoanalitico ha riprodotto concretamente ciò che Freud, in Psicologia delle Masse e Analisi dell'Io (1921), aveva indicato come modalità specifica del funzionamento collettivo nella Chiesa (soprattutto cattolica) e nell'Esercito: l'identificazione nel Capo Supremo come garanzia di coesione.
Ma mi chiedo: non c'è forse una matrice ebraica in tutto questo? La cultura di un  Popolo, per secoli minacciato di estinzione e smembrato da una diaspora interminabile, che ha cercato la propria unità nella tradizione religiosa anche al di là della Fede dei suoi figli nel Dio unico, ha lasciato forse un segno profondo nella memoria sepolta degli uomini.
Il gruppo degli psicoanalisti, illuminato da una verità portentosa e accecante ha preferito rinunciare a una parte della propria curiosità per timore di perdere il privilegio di un'appartenenza unica e irripetibile. Che sia questa la ragione?